Quando Giorgia Meloni alla guida della coalizione di centrodestra vinse le elezioni, i commentatori un po’ sbrigativi ne attribuirono il successo alla coerenza per essere stato il suo partito all’opposizione del governo di unità nazionale presieduto da Mario Draghi. Nessuno però riesce a spiegarsi del perché quel livello di consenso acquisito nel settembre del 2022 resta sostanzialmente invariato nonostante l’esecutivo e le forze della maggioranza abbiano governato in questi anni mettendo da parte i loro programmi e continuando a camminare lungo i solchi tracciati dal governo precedente.

I nodi sono venuti al pettine

L’Italia ha conosciuto, per fortuna, una discontinuità molto diversa da quella che Meloni aveva promesso durante la campagna elettorale; nessuno si aspettava che la premier si riferisse a se stessa, né che della mancata coerenza di Giorgia Meloni gli unici a lamentarsene fossero i partiti dell’opposizione, che per poter svolgere il loro ruolo sono costretti a rimuovere quei vincoli di bilancio che sono la condizione per partecipare al gioco di squadra dell’Unione. Ma gli appunti lasciati dall’ex presidente della Bce, come tradotti nelle ultime due leggi di bilancio, appartengono ad una fase che si è chiusa. Anche Draghi – nel suo ultimo contributo sulla competitività – ha intrapreso un diverso cammino. Il Paese ha bisogno di altro, per uscire da una situazione in cui – nonostante la cautela nel maneggiare i conti pubblici – tutti i nodi sono venuti al pettine.

La strada indicata da Giorgetti

L’Italia già sotto procedura d’infrazione per l’extra deficit di quest’anno deve fare il possibile per tornare al più presto sotto il classico 3% del Pil e deve anche avviare una riduzione dell’incidenza del debito. Per raggiungere questi obiettivi, nel Piano Strutturale di bilancio, il ministro Giancarlo Giorgetti ha indicato un percorso di 7 anni – per garantire una sostenibilità politica e sociale – con un tasso di crescita della spesa media annua, all’1,5 e una correzione pari allo 0,5% sul saldo strutturale per avviare, almeno, l’uscita dalla procedura di infrazione, già dal 2026. Ma una linea siffatta consentirebbe solo una faticosa sopravvivenza con il rischio che un passo falso possa far smottare –in termini di tassi di interesse sempre più insostenibili – la torre di Babele del debito pubblico.

Il governo deve agire al più presto agire anche sul denominatore (attraverso una crescita che non somigli ad un prefisso telefonico), perché come ha indicato Fabio Panetta: “Affrontare il nodo del debito richiede politiche di bilancio orientate alla stabilità e al graduale conseguimento di avanzi primari adeguati. Tuttavia, la riduzione del debito sarà ardua senza un’accelerazione dello sviluppo economico. La strada maestra passa – ha aggiunto il Governatore – per una gestione prudente dei conti pubblici, affiancata da un deciso incremento della produttività e della crescita. Questo circolo virtuoso aumenterebbe significativamente le probabilità di successo e rafforzerebbe la credibilità delle nostre politiche, alleggerendo il peso della spesa per interessi”. Certo sono molto ristretti i margini per una riduzione adeguata della spesa pubblica e per un incremento delle entrate fiscali (con una pressione al 41,3%). Dove eravamo rimasti col PNRR?