L'intervista
Marattin: “Con stipendi così bassi l’Italia non va avanti. Jobs Act? Se passa referendum il lavoro torna ostaggio dei sindacati”
Stufo dei soliti appelli a «questi presunti riformisti del Pd», Luigi Marattin deputato di Italia Viva e già consigliere economico del governo Renzi, dialoga con il Riformista di lavoro e del futuro della sinistra: «Se avessero davvero voluto andarsene lo avrebbero già fatto»
Luigi Marattin dal 2014 al 2018 è stato consigliere economico di Matteo Renzi alla Presidenza del Consiglio e poi del successore Paolo Gentiloni, dove si è occupato di tematiche di finanza pubblica. Eletto alla Camera con il Pd, diventa poi capogruppo in Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione. Nel settembre 2019 è entrato in Italia Viva diventando vicepresidente del gruppo parlamentare alla Camera. È stato anche membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario e finanziario.
Onorevole, lei è uno dei non molti a conoscere la materia. Prima di tutto: di che stiamo parlando? Qui sembra di essere ai tempi di Di Maio quando “abolì la povertà”. Si abolisce la precarietà abrogando il Jobs Act?
«In Italia le discussioni di politica economica si fanno per appartenenza, a seconda della fazione di cui fai parte. Qualcosa di simile alle guerre di religione o alla sfida tra tifosi allo stadio. Ecco perché la politica sta lentamente morendo, e con essa la partecipazione delle persone normali al dibattito e all’attività pubblica. Se si guardassero i dati (fonte Istat) si vedrebbe che la percentuale di contratti a termine sul totale dei lavoratori dipendenti oggi è praticamente la stessa di prima del Jobs Act, superiore solo di pochi decimali se vogliamo fare i precisi. Sa quando è stata di parecchio superiore, di circa due punti? Nel 2018-2019, proprio durante il Conte 1, quando a colpi di quegli annunci dal balcone che ricordava lei e di “decreti dignità” si volevano abolire povertà e precariato».
Landini però dice che il Jobs Act consente i licenziamenti, un po’ all’americana.
«Pensare di obbligare le aziende ad assumere a tempo indeterminato vietando – non per legge ma di fatto – i licenziamenti per motivi economici è ideologia allo stato puro. Perché nessuno assume sapendo di andare incontro a cause costose e incerte se volesse o dovesse risolvere il rapporto di lavoro. Tra l’altro, nessuno è andato a chiedere conto a Pd e sindacati della posizione che assunsero alla fine della pandemia. Dissero che se fosse venuto meno il divieto di licenziamenti (che al mondo praticamente avevamo solo noi) ci sarebbe stata una catastrofe occupazionale, e sui media aggredivano e davano del “servo dei padroni” a chiunque osasse mettere in dubbio questo verbo. Da allora non solo non c’è stata alcuna catastrofe, ma l’economia italiana ha creato più di un milione di posti di lavoro».
Quindi lei dice che il Jobs Act è stato utile per l’economia?
«Io tendo a non parlare per slogan, quindi evito di citare cifre roboanti senza solidi appoggi scientifici. Le cito invece una delle poche analisi rigorose fatte per isolare e analizzare l’effetto del Jobs Act sull’economia italiana (Graded Security and Labor Market Mobility: Clean Evidence from the Italian Jobs Act, di Tito Boeri e Pietro Garibaldi). I risultati sono chiari: il Jobs Act ha aiutato la crescita dimensionale delle imprese, aumentando il numero di quelle che hanno superato la soglia dei 15 dipendenti; le imprese sopra soglia hanno aumentato le assunzioni del 50 per cento rispetto a quelle sotto soglia; e l’effetto sulle nuove assunzioni ha superato di gran lunga l’effetto sui maggiori licenziamenti, come tra l’altro suggerisce il semplice fatto che dall’introduzione del Jobs Act a oggi in Italia ci sono 1,7 milioni di lavoratori dipendenti in più. In più aggiungiamo che in molti casi il Jobs Act ha fornito tutele a lavoratori che prima ne erano sprovvisti (una cosa di sinistra, disciamo) e al dimezzamento del contenzioso giudiziale in materia di lavoro (una cosa che favorisce certezze e competitività)».
Cancellando il Jobs Act si tornerebbe ai co.co.co. della legge Treu?
«Se passassero quei referendum, si tornerebbe ad un mercato del lavoro ingessato, in cui sarebbe facile per i sindacati fare i comizi tra i lavoratori tutelati, ma molto più difficile per un disoccupato essere assunto».
Detto tutto questo, è normale spaccare il Pd e le opposizioni per di più alla vigilia di una campagna elettorale?
«La spaccatura delle opposizioni non la ritengo importante, per un motivo molto semplice: da tempo ho smesso di pensare che l’attuale opposizione (da Avs a noi, passando per i M5s) possa rappresentare una solida e coerente alternativa di governo. Ho già vissuto nel 1996 e nel 2006 quello che succede quando metti insieme tutto e il contrario di tutto solo per non far vincere l’avversario: può darsi che, per caso, vinci le elezioni ma poi non riesci a governare e a cambiare l’Italia».
E sulla firma di Schlein?
«Schlein non sta facendo niente di diverso da quello che aveva promesso: trasformarlo in un partito di sinistra radicale, sul modello di Mélenchon in Francia, di Corbyn in Gran Bretagna e di Bernie Sanders e Alexandra Ocasio Cortez negli Usa. Fa bene, nella società italiana esiste una domanda politica per un partito del genere. Basta che sia chiaro che noi non abbiamo assolutamente nulla a che fare con un approccio del genere.
Si delinea un asse Landini-Conte-Schlein?
«Si è delineato da tempo, se è per questo. E, lo ripeto, fanno benissimo. In ogni società c’è bisogno di un’offerta politica di stampo socialista tradizionale, con venature di ecologismo radicale. Semplicemente dovrebbe esserci più chiarezza: quell’offerta politica c’è, e rappresenta parte della società italiana. Ma non ha nulla, nulla a che vedere con chi vuole far fare all’Italia quella modernizzazione strutturale che stiamo rimandando da trent’anni».
E di fronte a questo secondo lei i riformisti del Pd dovrebbero andarsene o combattere dentro?
«Onestamente mi sono un po’ stufato di questi appelli a questi presunti riformisti del Pd. Premesso che tra questa mitologica categoria c’è pure chi, nel 2015-2016 quando Renzi arrivava in Emilia Romagna faceva a gara a stargli accanto e a lodarlo; poi quando l’aereo di Matteo decollava per Roma, organizzava le iniziative con la Cgil contro il Jobs Act. In ogni caso i cosiddetti riformisti se avessero davvero voluto andarsene dal Pd lo avrebbero già fatto da tempo. La verità è che puntano semplicemente a riprendersi il partito con un uomo che li garantisca meglio. Questo può far la differenza per le loro carriere, ma non per come si cambia l’Italia. Con un segretario “riformista”, accadrebbe semplicemente questo: farebbe un’intervista per lodare il Jobs Act, e il giorno dopo uscirebbero quattro interviste della minoranza – più quella di Landini – contro il Jobs Act, e in cui si ricorda che non si possono tagliare le radici. Anche questa è una storia che abbiamo già visto per anni».
Torniamo al punto, Marattin. C’è una proposta riformista per superare il Jobs Act?
«Dieci anni dopo, è tempo di un Jobs Act 2. Da una parte per sistemare la disciplina del Jobs Act dopo che la Corte Costituzionale lo ha in parte demolito. Dall’altra, continuare l’opera di riforma del mercato del lavoro sulla base delle nuove esigenze. Sul primo fronte, ci ha già pensato Pietro Ichino sul sito di Libertà Eguale a suggerire un intervento normativo che riconcili lo spirito originario del Jobs Act con le sentenze della Consulta di questi anni: per tutti i licenziamenti economici, individuali e collettivi, prevedere un indennizzo magari aumentato per le imprese più piccole; mentre per i licenziamenti disciplinari attribuire al giudice la scelta tra risarcimento e reintegro. Sul secondo fronte invece, occorre prendere atto che se sul fronte occupazionale si sono fatti progressi, ora l’emergenza è su produttività e livello delle retribuzioni. Con stipendi così bassi, l’Italia non può andare avanti. Ma allo stesso tempo non serve ululare alla luna pretendendo che i salari aumentino per magia, per esproprio o magari per intervento statale».
E come si fa?
«Serve una strategia in tre punti. Primo, un Patto per la produttività: ogni volta che imprese e lavoratori si mettono d’accordo per fare più e fare meglio, lo Stato arretra. Quindi detassazione completa non solo dei premi di produttività ma anche degli aumenti retributivi derivanti dalla contrattazione territoriale o aziendale e degli utili destinati a schemi di partecipazione dei dipendenti. Secondo: i dati parlano chiaro: imprese di 3-4 dipendenti non potranno mai pagare salari alti. Quindi proposta shock: se due o più imprese si fondono per crearne una con più di 15 dipendenti, per 5 anni hanno il carico fiscale dimezzato. Terzo: com’è possibile avere due milioni di disoccupati e ormai metà del paese che non trova lavoratori? Serve un investimento forte in formazione e in mobilità dei lavoratori: oggi un disoccupato di Messina non si sposta a Varese non perché è un lavativo, ma perché tre quarti dello stipendio se ne vanno in affitto. Serve allora un sostegno pubblico non distorsivo delle dinamiche di mercato in grado di permettere un’effettiva mobilità nel territorio nazionale».
© Riproduzione riservata