Cinque ore sotto torchio, strizzata come si fa con i boss della mafia. E lei, Maria Carmela Longo, finita sotto la lente della Dda di Reggio Calabria, da sempre in prima fila nella giurisdizione, ha risposto punto su punto. A capo del carcere di Reggio dal 30 maggio 1991 al 18 febbraio 2019, poi a Roma, Rebibbia, nella sua carriera Longo ha ricevuto note di merito ed encomi in quantità. Ma non solo. A quanto apprende Il Riformista, nel 2018 venne fatto il suo nome come nuovo Vice Direttore del Dap. Una nomina alla quale la diretta interessata avrebbe replicato con sorpresa: si tratta di un incarico tradizionalmente riservato ai magistrati, avrebbe fatto notare lei stessa. Poi non ebbe quel posto – sappiamo dalle parole di Di Matteo che vi furono diversi ripensamenti – ma fu promossa sul campo, mandata nella capitale a dirigere il più grande centro detentivo femminile del Paese.Il gip Domenico Armaleo ieri ha ripercorso per tre ore e mezzo i fatti riportati nell’ordinanza d’arresto, che si prestano a una duplice lettura. Da un punto di vista formalistico, delle circolari e delle normative secondarie, ci sarebbero stati dei punti non rispettati dalla direttrice.

A fronte di questo, ha fatto notare la difesa, condotta dall’avvocato reggino Giacomo Iarìa, nessuna volontà di favorire singoli detenuti, meno che mai gli appartenenti a consorterie ndranghetistiche. «Su questo la dottoressa Longo ha dato prova di come l’atteggiamento che spingeva la stessa a eseguire o non eseguire alla lettera quanto dettato dalle circolari era dovuto alla ragionevolezza e al senso pratico della dirigente, forte di tanti anni di esperienza», dichiara l’avvocato Iarìa. Armaleo punta il dito sulla pagina che riguarda il ritardato trasferimento di Paolo Romeo, che ha atteso prima di essere tradotto nel carcere di Tolmezzo. «Vi erano diversi detenuti da trasferire nel carcere di massima sicurezza di Tolmezzo, quattro o cinque. Ho atteso di accorparli per realizzare un’economia di scala in base al budget e agli agenti disponibili», gli ha replicato l’ex direttrice del carcere. «Il primo ha dovuto attendere di più, il secondo di meno, il quarto è partito subito», spiega. Ma dove si anniderebbe il concorso esterno, con quali finalità, quali benefici, non è dato sapere. «Un patto invisibile con le ‘ndrine», si avventura a scrivere il Corriere. Anche più che invisibile: non percepibile. Ancora presto per articolare la stesura di una memoria di difesa, ma il legale ha preannunciato l’intenzione di impugnare il provvedimento di arresto davanti al Tribunale della libertà.

«Io posso anche aver sbagliato non applicando sempre alla lettera i regolamenti», avrebbe concesso Maria Longo, «ma non c’era alcuna intenzione di favorire qualcuno in particolare, né ho mai tratto alcun vantaggio o permesso ad alcuno di realizzarne». E per chi da vent’anni ha ricevuto encomi, incoraggiamenti e avanzamenti di carriera, appare contraddittorio questo improvviso abbattersi della tempesta giudiziaria. Come se qualcuno avesse improvvisamente deciso di imporre un cambio di passo culturale nella gestione carceraria. O semplicemente, è la lettura del Foro reggino, la Dda ha deciso di alzare l’offensiva verso la criminalità organizzata, lanciando segnali muscolari. A monte del provvedimento di arresto, spiccato due giorni fa, le parole di tre “pentiti” (Mario Gennaro, Stefano Tito Liuzzo e Francesco Trunfio) ai magistrati antimafia. E poi acquisizioni documentali, intercettazioni ambientali e telefoniche e attività di controllo della Polizia giudiziaria.

Un quadro che il gip Armaleo dipinge a tinte forti: «L’indagata Longo non ha lesinato durante il periodo della sua reggenza di intrattenere rapporti quanto mai inopportuni con i parenti di alcuni detenuti, per non dire che ella con il suo inqualificabile comportamento ha sistematicamente violato le norme dell’ordinamento penitenziario così agevolando, ed alleggerendo, il periodo di detenzione dei maggiori esponenti della ‘ndrangheta cittadina e non solo». La replica: «Se noi dobbiamo pensare che gli istituti penitenziari debbano essere regolamentati attraverso una puntuale osservazione delle circolari, probabilmente otteniamo risultati formali ma non raggiungiamo esiti sostanziali. Se ci si dice che la gestione di quel carcere ha consentito il prodigarsi della criminalità, in assenza di prove noi non lo accettiamo e non lo accetteremo mai», dice ancora l’avvocato Iarìa. «Nel concreto, in che termini c’è stato un inquinamento di dati processuali? Nessuno. In che termini c’è stato un contributo ai soggetti mafiosi? Nessuno. Non è accordando un colloquio in più con i famigliari che si favorisce la ‘Ndrangheta. Perché allora, se il colloquio è volto a favorire la criminalità organizzata, va abolito di tutto punto. Il diritto riconosciuto non è mai un favore». Si legge che la ‘Ndrangheta di fatto comandava nel carcere. «Ma non è così – replica l’avvocato –. Il direttore ascolta tutte le esigenze, sul piano pratico, in fatto di coabitazione. Chi vuole rendersi utile in cucina, chi vuole essere trasferito di cella. E quando non ci sono condizioni ostative, accordava il permesso». Agire diversamente avrebbe significato negare tutte le domande, con grande rigidità. E sembra la direzione non solo auspicata ma incoraggiata vivamente da via Arenula. Dopo il manganello usato con l’arresto Longo, quale altro direttore di penitenziario si azzarderà a prodigarsi per rendere la pena della detenzione meno afflittiva e più umana?

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.