Si vede che gli astri vanno in conflitto quando ci sono di mezzo questi due, la premier Giorgia Meloni e il presidente della Commissione dell’Unione africana Moussa Faki. A settembre si rischiò l’incidente diplomatico per i due comici russi che si spacciarono, con successo, per il leader africano mettendo in piazza le confidenze diplomatiche dell’Italia paese fondatore dell’Europa. Non il massimo. Sul vassoio fu messa la testa del miglior diplomatico presente a palazzo Chigi, Francesco Talò. Ieri mattina, aprendo i lavori al Senato del vertice “ItaliAfrica, un ponte per un crescita comune”, Giorgia Meloni ha finalmente stretto di nuovo la mano all’ex primo ministro del Ciad. “È quello vero, giusto”, si è rassicurata la presidente scherzando con Moussa Faki. E però poco dopo è stato proprio lui, quello vero, a rovesciare quattro secchiate di acqua gelata sul trucco quasi perfetto del Piano Mattei per l’Africa.

“Perché vede, signora presidente – ha detto Faki prendendola larga e poi vedremo come – noi africani sul Piano Mattei siamo anche disposti a discutere e confrontarci ma avremmo certamente preferito farlo prima e non oggi. È tempo di passare dalle parole ai fatti, signora presidente, e di mantenere le promesse”. Giorgia Meloni è come una statua di sale. Fissa il relatore in piedi sulla sua sinistra. Lui, Moussa Faki, tiene gli occhi sull’aula e concede di tanto in tanto lo sguardo alla padrona di casa. Mesi e mesi di lavoro e annunci messi a nudo con poche parole pronunciate in diretta streaming e non più confutabili.

Questa scena, che ha regalato anche altri passaggi scomodi per palazzo Chigi, è accaduta verso la fine della mattinata. E se sarebbe esagerato dire che ha condizionato il Vertice, lo ha però certamente messo a nudo per quello che rischia di essere: l’ennesimo esercizio di buona volontà mescolata con tanta propaganda.

Dunque ieri era il grande giorno: dopo un anno circa di annunci, avremmo finalmente conosciuto il Piano Mattei per l’Africa. Buona la seconda, si pensava, visto che la prima, il decreto legge che ha istituito la governance del Piano, aveva la consistenza di un avatar. Dopo la cena di gala domenica sera al Quirinale, Giorgia Meloni ha portato ieri mattina le 71 delegazioni straniere tra cui 46 paesi africani, 25 organizzazioni non governative tra cui Nazioni Unite e bancarie, Commissione, Parlamento e Consiglio europei a palazzo Madama. Le polemiche sulla scelta del luogo – il Senato inibito nei fatti ai senatori – sono state risolte con alcuni accorgimenti: un nuovo via libera di capigruppo, collegio dei questori e del consiglio di presidenza. Alla plenaria di ieri mattina sono stati invitati anche i capigruppo.

Ieri mattina traffico impazzito nella Capitale appresso alle oltre settanta delegazioni che si muovevano in città, zona rossa intorno a palazzo Madama. Il primo vertice internazionale organizzato dal governo Meloni. Un biglietto da visita per il G7. Il battesimo del Piano Mattei. Tante attese, dunque. Forse troppe. Tutto come se: Centro media tenuto a distanza dal centro dei lavori; delegazioni blindate al Senato; foto opportunity, Ignazio la Russa sull’ingresso di Corso Rinascimento a fare gli onori di casa e il baciamano alle numerose delegate quasi tutte vestite con abiti etnici. Prima annotazione: vertice molto partecipato ma i capi di stato e di governo si contano su due mani scarse. Più spesso sono ministri degli Esteri. Uno standing inferiore al previsto. Una volta disposti tutti nei banchi dei senatori – cerimoniale impazzito per garantire parità alle varie delegazioni – Giorgia Meloni ha finalmente spiegato il Piano Mattei.

Un programma “ambizioso” e “strategico”, il contrario della “miriade di micro-interventi” che non danno risultati significativi. Da attuare in “una logica incrementale” e “aperta alla condivisione”. Fin qui la filosofia. Nella pratica si parla di una manciata di progetti pilota relativi a quelli che sono le direttrici del Piano. Formazione, scuola, infrastrutture, agricoltura, sicurezza, cioè blocco dei flussi migratori che è il motivo originale che ha ispirato la premier: aiutiamoli a casa loro ed evitiamo che partano. Si partirà in Marocco, Algeria, Kenya, Costa d’Avorio, Etiopia, Mozambico e Tunisia. Dentro il Piano ci sono un centro di studi “di eccellenza” sulle rinnovabili, scuola e scambio di docenti con la Tunisia, un sistema di monitoraggio satellitare dell’agricoltura (Algeria), sviluppo di biocarburanti in Kenia, servizi primari per la salute in Costa d’Avorio, progetti di recupero ambientale delle acque in Etiopia e un istituto per le eccellenze agroalimentari in Mozambico.  Il cuore di tutto sono le materie prime e le infrastrutture. L’Italia hub e ponte all’energia dall’Africa verso l’Europa.

“Non è un piano chiuso – rivendica Meloni – e neppure vuoto. Lo seguirò personalmente”. Ci sono cinque miliardi e mezzo, due e mezzo vengono dal fondo per la Cooperazione e tre dal fondo per il clima. I primi vengono sottratti dal fondo del Ministro degli Esteri. I secondi dal ministero dell’Ambiente. Si può immaginare che Forza Italia non sia soddisfatta per questo visto che i ministri in questione sono “suoi”, Tajani e Pichetto Fratin. Il resto, cioè lobbying e analisi di mercato, lo hanno fatto ieri quella ventina di manager delle partecipate di Stato invitate al Senato per seguire i lavori: Eni, Enel, Cassa depositi e prestiti, Leonardo, Sace, Simest, Ice, Terna, Acea, Snam, Webuild, Fincantieri. Tutto perfetto, o quasi. Tutti contenti e fiduciosi della “nuova sfida” italiana che sarà parte di quella europea. Mentre frena il ministro Giancarlo Giorgetti uscendo dal Senato: “Tutto bello, oggi inizia un percorso ma poi servirà mettere a terra i progetti”. Nel segno della cautela anche le parole di Moussa Faki, quello vero. Grisaglia di ottimo taglio, tono di voce solenne, buona gestualità nelle mani e nel corpo che girava a destra e a sinistra cercando lo sguardo degli interlocutori, a cominciare da Meloni.

Faki ha parlato per dieci minuti e ha rovesciato quattro secchiate d’acqua gelida sul trucco fino a quel momento quasi perfetto del Piano Mattei. La prima: “Siamo pronti a discutere ma avremmo auspicato di essere consultati prima”. La seconda: “Passiamo dalle parole ai fatti, non bastano più le promesse se non sono mantenute”. La terza: “L’Africa non viene da voi con il piattino in mano, la nostra ambizione è molto più alta, quindi no alle barriere securitarie che significano ostilità. Vogliamo amicizia e responsabilità collettiva”. La quarta, rivolta direttamente al ministro degli Esteri Antonio Tajani: “Signor ministro, sette anni fa ero davanti al Parlamento europeo e ho detto le stesse cose”. Sottotitolo: “Ma siamo ancora qua a ripeterle”. Giù il sipario. Per ora. Ma tutti speriamo che il Piano Mattei possa camminare e cambiare l’Africa e, con lei, l’Europa.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.