S e il destino è nel nome, il Mes va letto in milanese. Dove mès sta per mezzo, metà. Una misura che tanti nella cronaca politica recente hanno visto mezza piena o mezza vuota, avversata o auspicata a fasi alterne e a seconda delle esigenze e delle convenienze. Senza escludere gli scambi di posizione, le contraddizioni e le inversioni a U. La settimana scorsa, prima dell’interruzione per le festività natalizie, la Camera aveva affossato la ratifica del Mes con i voti contrari di FdI, Lega e M5S.

E contando sull’astensione dei parlamentari di Forza Italia e di Noi Moderati. Antonio Tajani, che vorrebbe rappresentare in Italia il Partito Popolare Europeo, vive un comprensibile dissidio: in Europa il PPE è stato alfiere del Mes, che ha fatto votare dai suoi sostenitori in tutti i parlamenti nazionali tranne l’Italia. E non va meglio al titolare del dicastero di via XX Settembre. Giancarlo Giorgetti si era detto favorevole alla ratifica. Si era speso per scongiurare lo scontro con Matteo Salvini e per consentire ai gruppi parlamentari leghisti una via d’uscita onorevole.

Riferirà proprio oggi a Montecitorio sulla sua posizione e su quella del suo partito. La giostra degli incoerenti riguarda tutti. Senza escludere il Pd, a partire da Antonio Misiani, che nel governo Conte II era viceministro all’Economia, oggi è responsabile economico nella segreteria. Il suo parere sul Mes è alterno: si è spesso detto favorevole alla ratifica, prima per usarlo subito, poi per non usufruirne mai. Sul Mes, «nessuna opzione può essere scartata a priori. La linea di credito sanitaria del Mes è uno strumento potenzialmente utile e conveniente», aveva detto Misiani nel 2019.

Poi aveva iniziato a ritrattare: «L’Italia – ha fatto presente Misiani intervistato da Mattino 5, nel 2020 – non richiederà l’accesso alla linea di credito del Mes, il Fondo Salva Stati». Nell’estate 2020 è l’allora segretario Dem, Nicola Zingaretti, a contraddirlo: «Il Mes ora è uno strumento finanziario totalmente diverso da quello del passato», aveva scritto Zingaretti. E aveva incoraggiato il governo Conte II a richiederne i fondi. Bonelli deplora la maggioranza che «Ci isola in Europa sul Mes». Ma quando è in aula, insieme con il gruppo AVS, si astiene. Contribuendo in maniera determinante a quell’isolamento, e alla bocciatura della ratifica. Predica bene e razzola malissimo. Come predicava bene l’Avvocato del Popolo.

L’ex premier Giuseppe Conte, al netto della sua narrativa odierna, è stato il fautore sottotraccia dell’apporto italiano alla ratifica europea, con la risoluzione giallorossa che diceva sì senza troppi distinguo. Adesso Conte vota contro e archivia la stagione del dialogo con l’Europa. E mastica male, quando tirano in ballo Luigi Di Maio. Ieri Conte lo ha respinto, sul caso del documento mostrato in aula da Meloni: «Non mi servono sponde». Eppure tra Conte e Di Maio il gioco di sponda, proprio sul Mes, è stato una costante. Nel dicembre 2019 era Luigi Di Maio a non volerlo, mentre Giuseppe Conte non solo aveva aperto alla ratifica, ma era stato dietro alla trattativa europea che modificato il Mes.

Il Fatto Quotidiano, il 2 dicembre 2019, celebrava: «Sul Mes passa la linea Conte-Gualtieri». Cioè la proposta di ratifica, che però Pd e 5 Stelle non avevano avuto la coerenza di votare. Il premier pentastellato se ne era fatto garante, annunciando di essere pronto a votarlo. Sembra un’era geologica, invece sono quattro anni fa. A quel tempo le posizioni tra i grillini erano invertite. L’allora intransigente Luigi Di Maio, in tandem con Di Battista, lo aveva gelato: «Non si firma solo il Mes, l’ok è da dare al pacchetto. Decideremo noi come e se dovrà passare». «Concordo. Così non conviene all’Italia», gli aveva fatto eco Di Battista. Solo allora il premier, Conte, che lo avrebbe ratificato all’istante, si vedeva costretto a freddare gli entusiasmi: «L’ultima parola spetta al Parlamento», rassicurava, ma: «Lavoreremo per rendere questo progetto non solo compatibile ma utile agli interessi dell’Italia».

Il vicepremier della maggioranza gialloverde, Matteo Salvini, spegneva gli ardori di Conte: « Nessuno mi ha mai fatto vedere il testo delle modifiche al trattato che è da bloccare », dettava in modo chiaro il leghista. Vincenzo Presutto, che per il M5S ha seguito la Commissione bilancio al Senato negli anni della leadership di Di Maio, riassume così il balletto delle posizioni: “All’inizio eravamo ed ero contrario al Mes perché le condizioni del bilancio statale erano critiche e mi riferisco al debito pubblico alto. Ora la mia posizione sul Mes è diversa, perché la crisi economica-finanziaria e sanitaria causata dal Covid ha evidenziato la necessità di rivedere, potenziandolo, il ruolo della Unione Europea con una Italia sempre più attore centrale”.

Presutto è fuori dal Parlamento, ma l’aver seguito la parabola di Di Maio conferisce alla sua lettura una chiave interessante. Era contrario al Mes quando Conte era favorevole, ora che molti degli ex parlamentari – i più esperti – sono diventati favorevoli, constatano che il nuovo leader ha cambiato idea. Conte si è radicalizzato. Ci sarebbe poi un’altra parabola, quella di Mariastella Gelmini, oggi in Azione con Carlo Calenda. L’ex ministro dell’Istruzione aveva firmato con i capigruppo dei partiti di centrodestra (Lollobrigda, Molinari e Lupi) una risoluzione che domandava al premier Conte di non ratificare il Mes. Era il 9 dicembre del 2020. Tra l’altro, la Gelmini aveva descritto il Mes come un «rischio enorme per il Paese».

Un testacoda, a leggere le ultime dichiarazioni della stessa Gelmini, dopo la bocciatura della misura, la settimana scorsa, su Twitter: «Con la mancata ratifica del Mes l’Italia perde credibilità agli occhi dell’Europa e si rivela sempre più debole, oltre che inaffidabile. Nella maggioranza ci sono delle contraddizioni e oggi sono emerse in maniera inequivocabile».

Avatar photo

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.