Milano è la capitale italiana dell’innovazione non solo per la presenza di multinazionali tecnologiche ma anche per il numero di startup e PMI innovative e per investimenti di venture capital. Questa concentrazione non è casuale: l’innovazione prospera nei contesti in cui competenze e capitali si incontrano, e Milano è riuscita a costruire nel tempo un ecosistema fertile, caratterizzato da università di eccellenza, acceleratori e incubatori.

Tuttavia, quando si guardano i dati dell’economia milanese non emerge una specializzazione chiara (se non quella di città dei servizi e forse in parte della finanza) e viene quindi da chiedersi se le imprese innovative del capoluogo meneghino non debbano trovare una loro vocazione tematica o industriale, come per esempio è accaduto nelle varie valley emiliane (food, motor, biotech). La risposta che suggerisco è che, no, non è necessario.

Milano può rimanere una generica capitale dell’economia della conoscenza a patto che le startup e le PMI innovative milanesi diventino imprese che Giulio Buciuni nel suo libro “Innovatori Outsider” chiama plug-in. Sono imprese capaci di portare nei distretti industriali italiani e nei settori anche più tradizionali della nostra economia il valore generato dall’ecosistema dell’innovazione cittadino. Se riuscirà a costruire ponti con le filiere produttive italiane, Milano potrà rappresentare un modello di sviluppo innovativo originale, resiliente e di valore per l’intero sistema Paese.

Giulia Pastorella

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