L'intervista
Mimmo Locasciulli: “5-6 autori privilegiati hanno colonizzato Sanremo con canzoni tutte uguali. I talent? Ti prendono, ti illudono e ti buttano come scarti”
L’intervista al cantautore: “Queste canzoni firmate dai soliti sono tutte uguali. I manager e le agenzie dettano legge”
Mimmo Locasciulli, cantautore, più di 20 dischi all’attivo iniziando nel 1975 al mitico Folk Studio. Due anni fa è uscito il suo ultimo album, una rivisitazione di Intorno a trent’anni del 1982, in cui canta anche con Finardi e Brunori.
Perché questa scelta di rieditare un disco degli anni ’80? Ne hai nostalgia?
«Un po’ sì. Scherzando dico sempre che quello è un disco che ho scritto quando ero molto più vecchio, rivisitarlo con un animo più giovanile probabilmente avrebbe potuto portarmi qualche bottino in più nella cassaforte della sensibilità. Sono molto legato a quello che scrivo, perché non scrivo su commissione come un professionista, rispondo a dei diktat che sono i “toc toc” che mi vengono da dentro. Non suono quasi mai se non per concerti o registrazioni, o quando sento questo richiamo e vivo dei momenti di intensa ispirazione. A volte non ho reminiscenza di quello che ho fatto in quelle ore in cui sono stato attaccato al piano ma poi mi accorgo che, riascoltando quello che ho registrato, ho provato dei sentimenti importanti. Quelli che poi, a volte, si diluiscono con le promozioni e ciò che segue alla pubblicazione di un disco. Rivisitare quelle canzoni, in qualche modo mi ha fatto rivivere i sentimenti di quando sono venute fuori. Quello è un disco particolarmente importante per me perché racconta il cambio di rotta della mia generazione. Noi venivamo dagli anni 70 e questa specie di reflusso, di edonismo, in qualche modo mi preoccupava moltissimo. Riascoltando le canzoni di quello che è stato il mio vero primo grande successo ho pensato “perché no?” Noi eravamo la scuola romana un po’ più poetica, Finardi quella milanese che era più movimento e poi ho collaborato con Brunori perché mi sembra uno dei pochissimi cantautori che possono fregiarsi etimologicamente di questo titolo».
Quindi esistono ancora i cantautori, non solo in Italia, ma proprio a livello globale? Fammi dei nomi.
«I veri cantautori non sono quelli che scrivono in cinque una canzone e poi uno di loro la canta. Il vero cantautore non è necessariamente un rappresentante della canzone d’autore ma è quello che descrive, racconta e canta il mondo che vive, filtrato dalla sua sensibilità e col suo alfabeto. In Italia io vedo Dario Brunori, Mannarino e naturalmente Vinicio Capossela, anche se la sua immaginazione artistica lo porta a sconfinare molto in una sorta di teatro canzone. Ma anche nel mondo basta ascoltare l’ultimo disco di Dylan, ad esempio una canzone come I contain multitudes… Chi scrive e canta il proprio tempo è per me un buon esempio di cantautore».
Proprio nell’ultimo Festival di Sanremo mi ha colpito il fatto che le canzoni siano firmate da più persone e che per la gran parte siano sempre le stesse. Che ne pensi?
«Devo essere molto attento su questi argomenti, quindi parlo con prudenza, però ho scritto un post in cui ho detto queste stesse cose. Chiaramente Sanremo genera dei giri economici importanti. Senza tornare alla paleontologia dei miei tempi – ho fatto anche un io un Sanremo – una cosa del genere non l’ho mai vista. Ai miei tempi forse c’erano 30 etichette discografiche, adesso forse sono 2-3 le principali e ciò si traduce in un potere molto più forte. Ma credo che a dettare legge siano più i manager e le agenzie, che poi sono in simbiosi con i discografici. Riflettendo il manager della Mango è lo stesso dei Maneskin e di Mengoni, tutti recenti vincitori a Sanremo. Sarà una coincidenza ma può essere anche che certi risultati siano legati alla potenza dei manager. E forse in questa edizione per bilanciare questo potere fortemente autocratico si è ricorso a privilegiare quei cinque-sei autori che hanno colonizzato mezza produzione sanremese. Bisogna parlarne comunque con prudenza perché si rischia di scivolare in un atto d’accusa magari ingiustificato, ma la sensazione è quella».
Ruggeri mi raccontava che quando vuole ascoltare musica va sul sicuro e torna ai grandi del passato. Mi ha confessato che molta della nuova musica non la conosce e lo vive come un suo limite. Tu questi giovani usciti dai talent o quelli che spopolano su Tik Tok e Spotify li conosci?
«Qualcuno sì, per forza, mia moglie segue Sanremo… Anche talent come X Factor io non li ho mai visti se non per frazioni di minuti e non mi piacciono, anche perché questi programmi sono in mano ai produttori che ti prendono, ti illudono e poi ti buttano via come scarti. Così accade che per uno che vince restano migliaia di ragazzi delusi e bruciati, che difficilmente avranno una seconda chance. Il risultato è che sanno tutti cantare benissimo o stare sul palco. Ma se si arriva a questa omologazione qual è la novità? Mi ricordo che negli anni ‘80 venivano le mamme, le nonne, le zie che ti portavano la musicassetta dicendomi “senti mia nipote, mia figlia, come sa cantare”. Ma se ci sono 6000 locali dove si canta e quindi si immagina che chi ci lavora sappia cantare, o centinaia di scuole di musica dove almeno in ognuna di esse una cinquantina di studenti sapranno cantare, la domanda è “perché tua figlia?” Qual è la nota distintiva? E poi, tornando Sanremo, a parte qualche rara eccezione come Bertè, la Mango, Mahmood e pochi altri, queste canzoni firmate dai famosi cinque sei autori sono tutte uguali».
Con Veltroni la settimana scorsa riflettevamo sul fatto che ormai i prodotti dei talent siano stati soppiantati da questi giovanissimi che dominano sui social, per cui ci sono artisti che non sono neanche passati da una qualche forma di selezione dove un po’ di talento comunque lo devi avere.
«È assolutamente una formula sorpassata, infatti. Oggi tu indovini una cosa su Tik Tok o Spotify e diventi qualcuno, anche con scarso talento. Ma la fama è anche quando passi per strada e la gente ti riconosce e che ti ricorda anche dopo anni. Ci sono canzoni e cantanti che hanno fatto milioni di streaming, qualche anno fa, che oggi ricordano in pochissimi. È un mercato strano, anomalo, fugace, un usa e getta come un po’ tutto ciò che oggi gira intorno alla musica. Fortunatamente c’è ancora una minoranza che vuole sentire le parole, gli arrangiamenti, che vuole ascoltare chi sa suonare e cantare bene e che vuole trovare qualcosa nelle canzoni. Quando mi chiedono cosa penso della Trap rispondo che Trap ha vinto tanti scudetti… E ha ragione Enrico. Io non li conosco, non li capisco. Sarà un limite anche mio, però sono canzoni costruite su una batteria elettronica sempre uguale, pochissimi strumenti anche quelli elettronici e poi parole di cui difficilmente comprendo il significato, che sembrano comizi piuttosto insulsi o carichi di violenza. Quando dicevo che gli autori rappresentano il tempo che vivono evidentemente parlavo di contenuti e mi pare di capire che molti giovani oggi vivono un tempo vuoto».
I tuoi figli suonano con te. Questo ti ha aiutato anche nella conoscenza di nuovi generi e autori oppure avete tutti gli stessi gusti in famiglia?
«Ho due figli, il maggiore fa l’avvocato e 20 anni fa aveva fatto un bel disco. Poi mi ha detto “Papà, la musica se non la fai a un livello buono ti dà solo delusioni, quindi preferisco continuare a fare l’avvocato”. Oggi però, fortunatamente, ha un rigurgito. Ha appena finito di registrare un disco che non ho ancora sentito bene bene ma mi pare molto bello. L’altro vive a Parigi da undici anni e oggi ha uno studio importante, con 8 musicisti (tra cui 2 dei miei che si sono trasferiti lì) e scrive colonne sonore, lavora per Hbo e adesso sta lavorando con Luc Besson. Insomma, un livello bello alto. E quando devo fare qualcosa di meglio rispetto al mio studio a Roma vengo qui a Parigi e lavoro anche con lui. Il mio sogno è fare con loro quello che ho fatto negli anni più giovanili, cioè fare concerti con entrambi. In questa ottica vorrei realizzare un progetto, si chiama I Locasciulli’s. Mi piacerebbe moltissimo».
Sempre su Sanremo ci sono state polemiche a seguito della presa di posizione di Ghali col suo “stop al genocidio” a fine esibizione. Tu che sei considerato un cantautore “impegnato” che cosa ne pensi?
«Fossi stato Ghali, forse avrei preceduto l’esibizione di Sanremo con un post o un video per esprimere chiaramente la sua posizione sia verso Israele ma anche verso Hamas. Naturalmente nessuno può rimanere indifferente di fronte a questa strage di civili, però vorrei sentire anche delle parole di condanna per ciò che ha fatto Hamas. Ecco, se l’avesse fatto l’avrei apprezzato tantissimo. Anche perché lui ha scritto la canzone prima dei fatti del 7 ottobre, quindi è doveroso credere alla sua sincerità. Però poi, anche in maniera non voluta, automatica, passa per una paraculata che tu a Sanremo fai breccia sulla sensibilità della gente con una canzone che rappresenta, anche giustamente, un pesante atto di accusa».
Sul tuo Instagram leggo: “Ho pubblicato 20 album ufficiali sconfinando spesso nel mondo del jazz, del rock e del blues. Per il futuro vedremo, dipende da come tira il vento”. E insomma, come tira?
«Questa bio l’ho scritta un anno e mezzo fa. L’anno scorso ho pubblicato un post molto letto su Facebook in cui dico “Ho finito”, il post si chiama Closing Time. Ho tantissimi progetti, anche un album di canzoni da Bertoli ai Nomadi a Bella ciao, il progetto I Locasciulli’s, altri dischi di canzoni… Ma tutto fuori dai circuiti ufficiali. Non voglio avere un ufficio stampa, non voglio avere promoter né fare campagne promozionali, né avere a che fare con l’industria discografica e dello show business. Chi vuole sapere di me e sentire la mia musica viene ai miei concerti o va sui social, ho 17mila followers su Facebook e 518 su Instagram. Sono pochissimi ma giusti, però le voci corrono e tanto mi basta».
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