La pretesa punitiva dello Stato si sta ormai trasferendo dal processo penale al procedimento di prevenzione, dove le pene sono sostituite da misure personali e patrimoniali che, pur comprimendo i diritti fondamentali, vengono applicate indipendentemente dall’accertamento di un reato. Le misure di prevenzione sono lo strumento che il potere ha usato nei confronti della marginalità e del dissenso. Sono sopravvissute alla Costituzione e ripetute riforme legislative ne hanno ampliato a dismisura gli ambiti di intervento. I giudici di merito, da parte loro, non hanno saputo resistere alla tentazione di ricorrere al comodo strumento della prevenzione in sostituzione della più garantita risposta penale, che richiede maggiori sforzi investigativi e motivazioni più accurate.

Gli sforzi della giurisprudenza

La giurisprudenza di legittimità, almeno da un decennio, profonde sforzi per dare alla prevenzione una, comunque risicata, apparenza di legalità. La confisca di prevenzione, applicabile disgiuntamente dalle misure personali, può estendersi fino a beni acquisiti a distanze temporali che rendono impossibile ogni difesa, stante l’impossibilità di recuperare documentazione bancaria o testimonianze sulla lecita provenienza del denaro impiegato per l’acquisto. Lo “statuto processuale obiettivamente debole” (parole della Cassazione) del procedimento di prevenzione permette che gli accertamenti si fondino su indizi, congetture, sospetti. Definire il codice delle misure di prevenzione come codice antimafia è una chiara operazione di strumentalità comunicativa, volta ad accaparrarsi consenso pubblico. In verità, viene utilizzato indiscriminatamente nei confronti di soggetti semplicemente “indiziati di appartenere” ad associazioni mafiose e anche nei confronti di persone incensurate che il Giudice della prevenzione ritiene siano in realtà (chissà quale realtà) pericolosi criminali. A costoro, e sono la maggior parte, viene portato via tutto. Non perché la loro responsabilità per un reato sia stata accertata da un giudice con una sentenza, ma perché la loro condotta è ritenuta pericolosa. Siamo arrivati a limiti intollerabili, con beni sottratti a persone dichiarate innocenti dal giudice penale e che vengono spogliate di tutti i loro averi dal giudice della prevenzione. Un calvario senza fine. Per loro valgono le parole di Fabrizio De André nella Canzone del maggio: “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”. Solo chi lo ha provato sa cosa significa da un giorno all’altro perdere tutto, assistere impotente allo sfascio della propria attività d’impresa, trovarsi senza una casa, oppure vedersi restituire dopo anni di sequestro le ceneri della propria azienda. Il passato distrutto, il presente sottratto, il futuro negato. All’opinione pubblica tutto ciò viene sbandierato come lotta alla mafia, sapendo che, ovviamente, le persone perbene sono contro la mafia e quindi il consenso è scontato.

E per Nordio fanno numero

Pochi giorni fa è diventata di dominio pubblico la risposta del ministro Nordio ad una inusuale interrogazione con cui si chiedeva al governo quali iniziative intendesse assumere presso il Consiglio d’Europa per difendere il sistema delle confische di prevenzione. Il Ministro ha elencato con orgoglio i successi numerici e quantitativi delle confische, non facendo alcun cenno al fatto che una buona parte non riguarda fenomeni di criminalità organizzata (e, a maggior ragione, mafiosa). Soprattutto ha omesso di riferire che gran parte dei beni confiscati non è riutilizzata e finisce per essere un patrimonio in stato di abbandono. Le misure di prevenzione piacciono sia a chi governa sia a chi sta all’opposizione. Forse piacciono un po’ meno ai giudici della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che nel 2017 hanno fortemente criticato la qualità della legge italiana in materia. Nella sentenza De Tommaso/Italia, la Corte non aveva fatto alcuna distinzione tra le due ipotesi di pericolosità generica all’epoca esistenti, ritenute entrambe prive di chiarezza e prevedibilità, criticando il mancato rispetto del principio di “sufficiente qualità della Legge”. Ancora di recente, nella procedura Gangemi c/Italia, i giudici europei si dicono non convinti che la base giuridica delle misure di prevenzione sia diventata prevedibile alla luce dell’interpretazione fornita dalla sentenza della Corte costituzionale 24/ 2019.

Già da tempo la Corte EDU aveva affermato importanti princìpi anche in ambito procedurale. Nel 2014, esaminando l’aspetto delle presunzioni del procedimento di prevenzione italiano, ha riconosciuto la applicabilità dell’art. 6 della Convenzione sul giusto processo anche a questo procedimento, con l’applicazione dell’intero fascio di tutele previste dalla norma convenzionale. Affermando che la “condanna per delitto” costituisce il presupposto necessario per la applicazione delle misure di prevenzione, e che per dare effettività al diritto garantito dall’art. 6 § 2 C.E.D.U. occorre “evitare che i soggetti che hanno beneficiato di un’assoluzione o di una sospensione delle imputazioni vengano trattati come se fossero effettivamente colpevoli del reato loro imputato”. Un principio convenzionale che la giurisprudenza italiana, salvo alcune recenti pregevoli pronunce di una sezione della Corte di Cassazione, non ha mai recepito in maniera chiara.

La politica vive rincorrendo il consenso

La politica vive oggi rincorrendo il consenso. Il populismo pan-penale, che è la linfa della prevenzione, cerca il consenso di una opinione pubblica impaurita, disposta a farsi convincere facilmente che il castigo al presunto colpevole sia un passo necessario per la lotta alla mafia. Ultimamente, anche la magistratura europea sembra piegarsi a questa logica. In una recente sentenza, la corte EDU ossequia ed esalta il “crescente consenso internazionale sul ricorso alla confisca, (…), con o senza un previo accertamento della responsabilità penale”. Fa rabbrividire l’idea che si possa punire anche senza accertare, sacrificando sull’altare del consenso le garanzie, il diritto e la libertà.

Cosimo Palumbo

Autore

Avvocato penalista