Le elezioni regionali del Molise, che nelle intenzioni del “patto della limonata” tra Conte, Schlein e Fratoianni avrebbero dovuto essere il terreno di sperimentazione e avvio della nuova coalizione “progressista” e “alternativa”, si sono rivelate letali per la nuova strategia del Nazareno. Conte era stato chiaro, nel presentare – sia pure quasi clandestinamente – il nuovo esperimento giallo-rosso: esso doveva definitivamente archiviare il “centrosinistra” (inteso come sintesi tra le forze riformiste del centro e quelle della sinistra di governo) per lasciare il campo alla coalizione “progressista”, di cui il Molise era la punta avanzata. Un candidato presidente del Movimento 5 stelle, un Partito Democratico subalterno, un ostracismo esplicito e sancito nei confronti di ogni forza del centro riformista, moderata o che non appartenesse al perimetro della sinistra così come definita nei termini contian-schleiniani.

Conte pensava a Campobasso oggi, per immaginare l’Italia di domani. Un’Italia nella quale a lui spetta il compito del federatore della coalizione alternativa alla destra, e nella quale immagina di ritornare a Palazzo Chigi come fortissimo punto di riferimento del progressismo secondo i sogni di chi ancora oggi è tornato ad ispirare i piani alti del Nazareno. Non è andata così. Anzi. Il maggiore sconfitto delle elezioni regionali in Molise è proprio Giuseppe Conte. Lo è sul piano strategico, sul piano politico e sul piano numerico. Su quello strategico, perché l’illusione di sostituire un fumoso e generico “progressismo” alla dimensione consolidata del centrosinistra si mostra per quello che è. Illusione, appunto. Sul piano politico, perché l’idea di tornare ad essere il perno della coalizione giallo-rossa produce reazioni avverse e insopprimibili tra gli alleati ma, soprattutto, tra gli elettori. Sul piano numerico, perché è riuscito a passare dal 38% delle regionali del 2018 al 10% risicato di quest’anno, in una regione che era un granaio di consensi del Movimento 5 Stelle.

Ma se Atene piange, Sparta non ride. E serve a poco ad Elly Schlein consolarsi nel mantra del primo partito dell’opposizione. Perché da Campobasso, ma si potrebbe dire anche da Atene, arriva un messaggio talmente chiaro che solo chi non lo vuole vedere non lo può scorgere: ogni volta che ad uno schieramento conservatore si contrappone una sinistra frammentata e radicale, che rifiuta ogni approccio riformista, il voto centrista e quello che gli americani definiscono “swing-vote” (cioè quello di chi non vota ideologicamente) rifluisce a destra. Campobasso obbliga il Pd a riconsiderare la propria strategia. Perché non basta immaginare di essere il costruttore di una alleanza sulla base di generiche affermazioni, buone per gli slogan dei cortei. Un’alleanza non si costruisce con una piattaforma degna di un congresso della Sel che fu e con paroline che solleticano il tradizionale perimetro del voto radicale, giocando a svuotare i 5 Stelle.

Un’alleanza si costruisce se ci sono convergenze reali sui fondamentali. E se guardiamo a cosa accade in queste ore in politica estera, con le incredibili posizioni di Conte contro l’alleanza atlantica ma anche con gli equivoci di Schlein e Ciani che parlano di «cessate il fuoco» che se attuato oggi suggellerebbe il trasferimento di sovranità del Lugansk, del Donbass e dell’Ucraina del Sud allo stato russo che si è reso colpevole dell’invasione, ci rendiamo conto del tasso di tossicità che ancora esiste nel sistema delle relazioni politiche. Non basta fare appelli generici all’alternatività alla destra, perché una coalizione di governo non si costruisce contro qualcuno o qualcosa, ma per l’Italia. Così come la propria identità politica si afferma in positivo, e non in negativo.

Nell’attesa che i riformisti del Pd riescano a comprendere che il proprio partito, ogni qualvolta si è scelta l’alleanza con il Movimento 5 stelle, ha pagato dazio (si pensi alle elezioni regionali in Umbria, in Friuli e ora in Molise), resta per il Terzo Polo – alla luce anche delle conclusioni di queste elezioni regionali – di proseguire il lavoro di costruzione dello spazio riformista che trovi nella lista “Renew Europe” alle prossime elezioni europee il proprio punto di caduta. Perché la crisi del modello Conte è innescata, e l’avvitamento del Pd appare evidente. E forse non tutti al Nazareno vorranno bere la cicuta.

Enrico Borghi

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