Quinta liceo, lezione di letteratura inglese. La professoressa spiega i poeti di guerra, ci parla di Owen e di Sassoon. Morireste per la Patria? Quella domanda risuonò nella classe insieme alla profondità delle possibili risposte. Non era ancora il momento del risveglio globale di guerre e conflitti, ma in realtà i presupposti già esistevano. Noi non siamo più abituati alla guerra o, per meglio dire, alla competitività internazionale capace di degenerare in violenza. Ecco perché il ruolo della scuola diventa importante, ed ecco perché le risposte a quella domanda furono quasi tutte astratte ed idealistiche, e dunque ugualmente lecite ma potenzialmente vane.

Non è una questione di colpe, poiché questo esempio ci deve far riflettere su un sistema scolastico che abitua gli studenti a vedere, giustamente, il mondo come dovrebbe essere; ma senza fare i conti col modo in cui si manifesta davvero. Come ebbe a dire un altro professore, è chiaro che la guerra sia sbagliata e crudele; si può dunque presumere che studiando si riesca anche ad andare oltre le cose scontate?

Il problema che si incontra ragionando solo su come il mondo dovrebbe essere è che, alla fine, si finisce per perdere l’orientamento; e ci sembra di impazzire. Perciò, a seconda dei casi, la reazione può essere quella di un rifiuto sdegnoso della realtà, o magari può corrispondere ad una ribellione aprioristica ma empiricamente insignificante.

Non colpa, ma interesse

Di chi è la colpa? Questa è l’altra classica domanda che sentiamo ripetere ogni volta che un conflitto internazionale acquisisce notorietà. Il passo successivo consiste nello schierarsi a favore di uno di uno degli attori coinvolti. È come se esistesse una sorta di influenza positivista all’interno della nostra mentalità, la quale ci spinge a categorizzare tutto e a dover trovare forzatamente un lato giusto e un lato sbagliato. Nulla di più lontano dal funzionamento delle relazioni internazionali; nelle quali la parola chiave non è colpa ma interesse. Quali sono gli interessi di quella nazione, di quel movimento insurrezionale, di quella organizzazione, che la porta a giocare la sua partita in un dato contesto?

Nessuno ha chiesto a Cavour se si fosse sentito in colpa per aver portato un contingente sabaudo a combattere in Crimea. Non c’erano motivi validi legati all’area geografica, assolutamente irrilevante per la politica estera di Torino. Tuttavia era l’unica soluzione per accedere al tavolo delle trattative e dare dignità europea alla questione dell’Unità. Cinismo? Forse, ma anche risoluzione concreta dei problemi; questione molto trattata e poco praticata.

Il rischio di una politica estera inconcludente

La scuola è intrinsecamente connessa con la politica internazionale perché forma la gioventù degli Stati che ne diventano indiscussi protagonisti. La gioventù è il bacino di partenza che alimenta le università, dalle quali fuoriesce la classe dirigente capace di contribuire anche alla formazione della politica estera di un paese. Che succede se la mentalità, e l’approccio, di un paese diventa idealistico? Che succede se il rifiuto del cinismo de facto in virtù di inapplicabili precetti morali si fa metodo rigido e aprioristico?Il rischio è di produrre una politica estera inconcludente e marginale, che è il tipo di situazione costantemente sfiorata sia dall’Italia sia dall’UE negli ultimi anni. Kissinger avvertiva che la passività conduce all’impotenza in caso di crisi, e alla fine si torna ad affrontare gli stessi problemi in situazioni meno favorevoli. Nella concezione italiana dovrebbe emergere di nuovo il realismo, in luogo dell’istituzionalismo idealista già fallito ai tempi di Wilson. Dunque cosa fare? Potremmo, per esempio, conferire al sistema istruttivo un’impostazione pragmatica, sfruttando le nozioni teoriche come esempi di risoluzione concreta. Così quando insegneremo Cavour e l’intervento in Crimea, forse, smetteremo di fare confusione tra cinismo, opportunismo ed astuzia.

Leonardo Lucchesi

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