Nuovi scontri sono esplosi ieri nel Nagorno Karabakh, regione autonoma nel Caucaso da circa oltre 30 anni al centro di una disputa territoriale tra Armenia e Azerbaigian. La fragile tregua è di nuovo crollata nell’enclave abitata da circa 143mila abitanti, la maggior parte dei quali armeni, ma riconosciuta a livello internazionale come azera. Quelle di ieri sono le tensioni più violente esplose nel territorio dal 2016. Baku ed Erevan oggi riportano il bilancio degli scontri. Per il ministero della difesa azero sono morti oltre 550 militari armeni. Per l’autoproclamato ministero della Difesa della Repubblica del Nagorno-Karabakh “circa 200 militari azerbaigiani sono stati uccisi”.

LA STORIA – “Nagorno” in russo vuol dire “montagna”; “Karabakh” ha origine turca e persiana e significa “giardino nero”. L’enclave è divisa in sette regioni. La capitale è Stepanakert (53mila abitanti). Ha all’incirca la superficie del Molise. Le ragioni dello stato contestato dell’area, come riporta Al Jazeera, risalgono all’inizio del Novecento e continuano con l’indipendenza di Armenia e Azerbaigian dall’Impero Russo nel 1918. Il territorio divenne parte dell’Azerbaigian, nel 1923, dopo la costituzione dell’Unione Sovietica.

Il parlamento locale dell’enclave – azera ma abitata da una maggioranza armena – chiese l’annessione a Erevan nel febbraio 1988. Seguirono pulizie etniche. Dopo il crollo dell’URSS, Baku si dichiarò indipendente da Mosca ma la regione non riconobbe la sovranità dell’Azerbaigian. Un’autoproclamata repubblica armena si è insediata manu militari e in sette distretti limitrofi tra il 1992 e il 1994. Circa 30mila persone persero la vita in quegli anni di conflitto. Per la comunità internazionale è ancora territorio azero.

L’accordo di Bishkek del 1994 – raggiunto con la mediazione della Russia – ha sospeso solo temporaneamente le ostilità. Il territorio è sotto il controllo militare dell’Armenia. La tregua è sempre fragile e il processo di pace tra i due Paesi è in stallo dal 2009. Gli ultimi scontri gravi risalgono al 2016 e vengono ricordati come la “guerra dei 4 giorni” del 2016, quando morirono circa 110 persone. Lo scorso luglio 17 militari di entrambe le parti sono caduti in nuove tensioni.

LE PARTI – La Rivoluzione di Velluto del 2018 ha portato al potere in Armenia il Primo Ministro Nikol Pashinyan. Le manifestazioni si opponevano alla corruzione e alla leadership post-sovietica che ha amministrato per molti anni anche dopo la caduta dell’URSS. Il movimento ha rimosso dai vertici dello Stato una leadership originaria del Karabakh e quindi poco propensa al compromesso. Il cauto ottimismo espresso dopo l’insediamento di Pashinyan ha perso però gradualmente forza. A Baku governa invece Ilham Aliyev, figlio di Heydar, ex ufficiale dei servizi segreti del KGB sovietico, al potere con pugno di ferro fino al 2003. Nel 2017 è stata nominata prima vice presidente la moglie di Aliyev, Mehriban.

Per l’esperto di politica eurasiatica e sicurezza energetica Carlo Frappi lo status quo nell’enclave non è mai apparso tanto precario. Frappi ha scritto per Ispi che “non soltanto la profondità della faglia che divide due popoli per i quali il ricordo della convivenza nell’edificio sovietico si fa sempre più sbiadito” ma nei Paesi è diffusa e radicata “una sindrome di ‘sovranità mutilata’, di perdurante incompiutezza del processo di costruzione statale. Una sindrome che – a sua volta inestricabilmente legata alle rispettive costruzioni nazionali – rende ancor più precario lo status quo e, ciò che è peggio, restringe notevolmente i margini di manovra delle due leadership, al tavolo negoziale come sul campo di battaglia”.

FUORI DALL’ENCLAVE – Il Nagorno-Karabakh è attraversata dagli oleodotti che riforniscono di petrolio e gas i principali mercati mondiali. Dopo gli scontri esplosi ieri gran parte della comunità internazionale ha lanciato appelli alla pace. Papa Francesco ha dedicato parte dell’Angelus alle tensioni. Le maggiori potenze coinvolte nella disputa sono Turchia e Russia.

Ankara appoggia l’Azerbaigian, Paese a maggioranza musulmana, ricco di petrolio e di lingua turca. La Turchia ha tra l’altro sempre negato il genocidio degli armeni compiuto sotto l’impero ottomano tra il 1915 e il 1916. Mosca è invece legata all’Armenia dall’alleanza militare dell’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (Csto) dei Paesi ex sovietici. Erevan fa affidamento sulla Russia da un punto di vista militare.

Antonio Lamorte

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