Letture
Il libro
Napoleone, la profezia fallita su Israele e un viaggio amaro nello Stato ebraico
Adam Smulevich, nel suo ultimo resoconto giornalistico, scatta la fotografia di un orrendo e agghiacciante presente
Una leggenda narra che Napoleone, apprese le millenarie tragedie del popolo d’Israele, abbia detto: «Un popolo che piange da così tanti anni il suo Tempio riuscirà un giorno a vederlo ricostruito». Un fatto probabilmente mai accaduto. Lo racconta Adam Smulevich in questo bel libro, “Israele – Tra abisso e speranza viaggio nell’anima di un Paese” (Minerva), resoconto giornalistico di grande efficacia di un viaggio compiuto nell’agosto scorso in tutto il piccolo paese ebraico, devastato dal trauma del 7 ottobre.
E infatti questo giro nel profondo del paese ebraico non può non partire dal luogo dell’orrenda strage dei lupi di Hamas, quella spianata che tutti abbiamo visto con i ragazzi felici e un attimo dopo massacrati: «Qualcuno ha scritto “We will dance again” anche su un rifugio antimissile, donato “con amore” e “per la sicurezza di Israele”. Nei pressi un’installazione raggruppa le foto di tutti i caduti, componendo uno straziante collage. “Tutto quello che volevano era danzare ed essere felici”». La semplicità e la libertà del ballare tutti insieme: spezzate dal fulmine più violento che si possa immaginare. A Beer Sheva, l’attacco a un’abitazione: «I terroristi iniziano infatti a sparare attraverso la porta» e poi il figlio di chi sta raccontando i fatti «è colpito a entrambe le mani, mentre con il secondo sparo mi hanno mandato in pezzi la gamba destra: dopo qualche secondo ho perso conoscenza». Quindi è seguito un tentativo di rogo, il panico si è fatto strada «ma abbiamo deciso che sarebbe stato meglio morire per gli effetti del fumo, nella stanza blindata, piuttosto che farsi impallinare dai terroristi». La famiglia ebrea tiene duro e poi in qualche modo arrivano i soccorsi a salvarli.
Smulevich si addentra nel cuore di Israele, parla con molte persone, illustra l’anima del paese visitando un kibbutz: «In ebraico la parola kibbutz significa “insediamento comunitario”. Detta così, non sembrerebbe nulla di speciale. E invece dietro a questo nome palpita l’autenticità di Israele. Si può anzi ben dire che il paese sia nato con i kibbutz e i valori trasmessi in queste comunità indipendenti fondate all’insegna del duro lavoro nei campi e da patti di reciproca solidarietà. Tutto condiviso: dalla gestione dei beni, alla rotazione del lavoro, all’educazione dei bambini». Qui Smulevich incontra Moshe Dama, 100 anni, lucidissimo, che gli racconta la sua storia, che è quella di tutto un popolo.
Ed ecco Gerusalemme, città mitica, magica, divisa tra arabi, ebrei, cristiani, dove – scrive l’autore con senso del paradosso – «i gatti sono i veri padroni della città: li si incontra in ogni strada; all’ingresso di ogni sinagoga, chiesa e moschea. Chissà che religione professano, se anche loro si dividono tra ortodossi e laici, gatti di destra e sinistra». E a pochi minuti di macchina arriva a Tel Aviv, «ma è come entrare in un altro mondo, in un’altra dimensione del poliedro Israele. Tel Aviv è la città “che non dorme mai”, una delle capitali della movida. O almeno lo era prima del 7 ottobre». E tuttavia la vita scorre, nella sua lietezza “occidentale”, nella sua frenesia che pure non dimentica.
Ancora, il monte Carmelo che sovrasta la dolce Haifa, «città della convivenza in cui anima ebraica e araba del paese si compenetrano a vicenda con naturalezza, grazie ad Abraham Yehoshua e ai suoi romanzi Haifa è diventata anche città letteraria», e chissà che dolore avrebbe provato dopo il Sabato Nero quel grande scrittore che immaginava un futuro completamente diverso da questo orrendo presente. È un viaggio amaro, questo, eppure così bello.
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