Forse è stato già detto: chi di vaffa ferisce, di vaffa perisce. Giubilato per la seconda volta dalla sua “comunità”, Beppe Grillo esce tristemente di scena come quei personaggi secondari che scompaiono al primo atto, quando il dramma è appena cominciato. Si chiude così un esperimento politico-culturale paradossale. Il popolo dei movimenti populisti del terzo millennio è quello dei disoccupati, della borghesia minuta, dei disorientati, degli impauriti dalla globalizzazione. Ma con il M5S delle origini ci siamo trovati su un pianeta diverso: il popolo al quale si rivolgeva non era il popolo “semplice e umile”, ma il popolo sofisticato del web; non nasceva dallo spaesamento di fronte alla modernità, ma dalla modernità stessa, i cui effetti venivano poi duramente contestati.

Il populismo

Nell’era di Giuseppe Conte per un verso è entrato nella stanza dei bottoni con un’attitudine sfacciatamente trasformistica, per l’altro si caratterizza come rappresentante dei perdenti nella lotteria della vita: i poveri, gli ultimi, i sofferenti, non senza una spruzzata di ambientalismo di marca paleoindustriale e una di pacifismo di marca elettoralistica. Cosa che, almeno in parte, spiega il crollo della sua capacità attrattiva in vasti settori del ceto medio. Ma se la pianta sembra nuova, le sue radici sono vecchie. Forse per comprendere questa ambivalenza occorrerebbe restituire al termine populismo la sua antica funzione descrittiva. Marco Tarchi lo ha definito così: “Una mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione” (“L’Italia populista“, il Mulino, 2018).

Lo strumento e la capacità camaleontica

Dal canto suo, il politologo inglese Paul Taggart lo ha definito “servitore di molti padroni”, perché “il populismo è stato uno strumento dei progressisti, dei reazionari, degli autocrati, della sinistra e della destra”. E gli attribuisce “un’essenziale capacità camaleontica, nel senso che acquisisce sempre il colore dell’ambiente in cui si manifesta” (“Il populismo”, Città aperta, 2002). In estrema sintesi, il populismo è al massimo un’ideologia “debole”, nelle cui espressioni storiche sono tuttavia ricorrenti alcuni elementi distintivi: primo tra tutti l’appello diretto al popolo, senza mediazioni istituzionali, contro l’establishment.

Ora, combattere l’intolleranza verso ogni sorta di diversità, le ossessioni securitarie, le smodate passioni identitarie, i toni rissosi e triviali, la violenza verbale e il folklore demagogico che infestano il suo linguaggio e le sue parole d’ordine è perfino un imperativo etico. Ma qualificare con snobistico disprezzo ogni manifestazione di disagio popolare come protesta sterile e baccano da ignorare è – come disse Joseph Fouché a proposito della fucilazione del duca d’Enghien (1804) – peggio di un crimine, un errore politico. È solo un modo miope per cavarsi dai guai e ridimensionare un problema molto serio: il distacco dei cittadini dalla politica, minaccioso preludio di un più grave distacco dal sistema democratico.