Equilibri precari
Il caos regna sovrano in Siria: liberi tutti, anche i terroristi e si teme la svolta jihadista del regime
Dalla scarcerazione di tutti i criminali dalla prigione simbolo del governo Assad al pericolo di un nuovo Afghanistan, mentre il rischio di allargamento del conflitto preoccupa Usa e Turchia
La nuova Siria prende forma sotto la lente critica e preoccupata dell’Occidente. Le immagini dei saccheggi alle caserme, alla dimora di Bashar al Assad e degli uffici governativi operate dai primi gruppi entrati nella capitale – e rinnegati dal Tahir al Sham (Hts) di al-Jolani sopraggiunto solo 12 ore dopo – hanno lasciato il campo ai filmati amatoriali dei miliziani intenti a spalancare le porte delle prigioni del regime, liberando “gli oppositori del regime” con il rischio però come sempre avviene che di quelle ore di anarchia, tipiche delle cadute dei regimi, ne abbiano approfittato oltre che i delinquenti comuni di ogni risma, anche tanti terroristi catturati negli anni della guerra civile dal regime.
Su tutte, la più importante è la liberazione della prigione militare di Sednaya a nord di Damasco, simbolo del regime e luogo di torture e sevizie sempre denunciate dagli oppositori, dove si scava con l’ausilio di ogni mezzo per rintracciare tutte le celle sotterranee, ove dovrebbero trovarsi i prigionieri di massimo livello, sperando che siano ancora vivi. Il caos – benché ancora i colpi di Ak-47 rientrino nella normalità – è stato riassorbito dalla presa di potere da parte di al-Jolani e del suo fronte, che nonostante il ritardo nell’ingresso nella capitale, ha imposto subito la propria autorità e preso le redini del nuovo governo. La nomina del premier al-Bashir e la promessa di non trasformarsi nella nuova Afghanistan sono il mantra nelle dichiarazioni di queste ore rilasciate dai leader dei nuovi miliziani al potere. Le preoccupazioni sono tante e tutte legittime. Perché se è ancora prematuro e troppo incline alla propaganda russo-iraniana definire Assad il nuovo Gheddafi, non certo nell’epilogo quanto nel vuoto di potere lasciato in mano ai miliziani jihadisti, è pur vero che Assad era un “laico” e come tale garantiva un importante equilibrio in uno Stato in cui sono presenti varie comunità religiose, tra cui cristiani e curdi, e drusi. Tutte popolazioni che temono una virata jihadista del nuovo regime.
Del resto l’abbaglio delle “primavere arabe” è ancora vicino e tanti in Europa come negli Stati Uniti ne furono ingannati. Barack Obama, che in politica estera non ha dato il meglio di sé, in otto anni alla Casa Bianca ci cadde in pieno e non intuì la vera natura della Fratellanza Musulmana, laddove essa è attiva e faticò a distinguere la natura dei ribelli in Siria. Per gli Stati Uniti la Siria è un’arma a doppio taglio, perché se è vero come sostiene Trump “non è affar nostro” inteso per la dinamica strettamente interna, è pur vero che gli Stati Uniti in Siria hanno 900 militari e appoggiano i Curdi, che contro lo stato islamico sono stati fondamentali e che nel crollo di Assad oggi vedono però la vittoria della Turchia di Erdoğan, in neonato “impero” ottomano che prosegue ad estendersi approfittando delle difficoltà degli altri due imperi sul campo, quello russo e quello persiano.
Il doppiogiochismo turco è il primo elemento di destabilizzazione, e pone le prime perplessità sul futuro della Siria. La stessa posizione del paese levantino, posto al centro tra i due conflitti in essere, invita alla prudenza, perché la Siria potrebbe trasformarsi in un involontario campo di battaglia ben più ampio di una futura faida tra fazioni. Saltando Assad sono salatati tutti gli equilibri che il regime garantiva seppur azzoppato negli ultimi tredici anni, e che potrebbero trasformare la regione araba in una polveriera tra fazioni appoggiate da potenze esterne, con il rischio di innescare un effetto domino di difficile contenimento. E allora anche la cautela degli Stati Uniti e la volontà di tenersene fuori della nuova amministrazione potrebbe non bastare, visti anche i piani di riprendere il percorso degli “Accordi di Abramo”.
Per ora al Pentagono e a Langley possono gioire per lo smacco subito dai russi, ma tali gioie sono spesso fugaci, come insegna l’Afghanistan post-sovietico. La natura del nuovo regime e la sua “tenuta” sono due incognite di non poco conto, e non basta la sconfitta russa a giustificare l’euforia occidentale per la caduta del regime degli Assad. Cosi le accuse di Erdoğan a Israele enunciate a Giorgia Meloni fanno capire che la posta in gioco è alta e non si limita alle sole questioni interne della Siria.
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