In Procura sventola bandiera bianca. Fine delle ostilità. Tra chi? In primis tra la stampa e gli inquilini del Palazzo. Giovanni Melillo lascia Napoli per partire alla volta di Roma. Qualcuno diceva che i bilanci sono sempre dolorosi da fare perché si è costretti a fare i conti con la verità. Cosa lascia Melillo? Un fortino blindato, un potere enorme costruito silenziosamente nel tempo, senza mai dare nell’occhio, sempre con un profilo basso, poche parole, precise, impeccabili e… sempre controllate. Da lui naturalmente. È emblematica la rete di silenzi che pian piano ha costruito attorno ai suoi collaboratori che non potevano più parlare con i giornalisti. Mai.

In questi anni Napoli sembrava una tranquilla cittadina della Svizzera. Omicidi, scippi, rapine, inchieste importanti: tutto custodito nei cassetti della Procura. Tutto taciuto, come pure si è taciuto sul comportamento di certi pm, uno in particolare dal cognome straniero. Loro invece potevano muoversi liberamente, in barba al ruolo, al codice comportamentale, ai cittadini. Perché quando parliamo di giustizia di questo parliamo: della vita dei cittadini. La stampa in questi anni ha vissuto momenti umilianti quando si parlava di Procura. L’escamotage però in questo caso era quasi inattaccabile: il garantismo. Chi legge questo giornale sa che il garantismo è la sua stella polare, è fatta di questo principio la carta che ogni sera viene fuori dalla tipografia. La linea tra censura e garantismo è molto sottile, ma non invisibile.

C’è e si può toccare con mano. Melillo è stato il magistrato che ha deciso che le conferenze stampa dovevano trasformarsi in colloqui informali e guai a riportare in un articolo qualche sua dichiarazione. Due virgolette e una frase detta da lui, e scritta in maniera certosina, facevano scattare la telefonata alle 7.30 del mattino. Il giornalista che aveva osato riportare le sue parole veniva svegliato da un collaboratore del magistrato e gli veniva chiesto di correre in Procura. Non si può virgolettare niente. Fine. Melillo ha controllato in “maniera militare” le fonti di polizia giudiziaria, trasformando investigatori di primo piano in passacarte intimoriti. Ha sospeso per poi riattivarli, e per poi sospendere ancora, gli accessi agli uffici per i giornalisti. Una procura, quella di Napoli, che ha arrestato e fatto processare centinaia tra imprenditori e politici, che quasi sempre, dopo anni di gogna, sono stati assolti. E il numero di errori giudiziari nel distretto napoletano lo dimostra. Ma guai a fare domande scomode, cancellata anche la possibilità per operatori, videomaker e fotoreporter di lavorare.

Un Palazzo blindato che si celava dietro il ritornello: “La Procura non vuole”. La Procura non vuole che si sappia, che venga detto, che venga raccontato e scritto. Ma è normale in un paese democratico dove vige la libertà di stampa venire a conoscenza di un omicidio solo un anno dopo? È normale che di ciò che fanno le forze dell’ordine di notte si sappia pochissimo? È normale che non si tenga conto della condotta di un pm e che lo si mandi avanti nonostante le criticità che emergono sulla sua attività professionale nei confronti di un imputato? Eppure, parliamo della stessa Procura che sosteneva che il giudice doveva guadagnarsi la fiducia di tutti, anche dell’imputato. La stessa che ha consentito l’utilizzo indiscriminato delle intercettazioni a strascico e poco importa se le stesse invece di essere custodite in Procura, come la legge impone, si trovavano a casa o negli uffici di qualcuno.

Una Procura che di fronte a fatti raccapriccianti, l’omicidio di Antonio Natale per esempio, ha taciuto, lasciando che prendessero il sopravvento quei “giornalisti sciacalli” che pubblicavano foto dei “presunti assassini” insieme a compagne e figli. Non una parola, non una smentita, una conferma. Solo bocche cucite. Sta tutta qui la distorsione della giustizia napoletana degli ultimi anni: silenzio, parliamo noi quando lo riteniamo necessario in barba a qualsiasi diritto di cronaca. Se davvero si vuole ritornare a una giustizia trasparente, iniziamo col rompere il silenzio e squarciando quel velo di Maya che confonde, che mischia le carte e nasconde la verità, in nome di un finto garantismo.

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Giornalista napoletana, classe 1992. Vive tra Napoli e Roma, si occupa di politica e giustizia con lo sguardo di chi crede che il garantismo sia il principio principe.