La doccia gelata questa volta l’ha provocata il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov. Già nei giorni scorsi, dopo il rilancio di Donald Trump sulle trattative “immediate e dirette” tra Kyiv e Mosca, il presidente degli Stati Uniti aveva dovuto registrare la cautela del capo del Cremlino, Vladimir Putin. Al punto da avere ammesso, al telefono con gli altri leader europei, che lo “zar” non aveva interesse a un accordo perché convinto di ottenere la vittoria sul campo di battaglia. Ma ieri, per la Casa Bianca è arrivato un altro stop. E questa volta non ha riguardato tanto l’idea delle trattative, quanto la scelta del luogo del negoziato, cioè il Vaticano. Lavrov sull’ipotesi Oltretevere è stato netto. “Vorrei dire che non si dovrebbero sprecare le capacità intellettuali elaborando opzioni che non sono molto realistiche” ha detto il capo della diplomazia di Mosca. “Immaginate il Vaticano come sede dei negoziati: direi che è un po’ inelegante che Paesi ortodossi discutano questioni relative all’eliminazione delle cause profonde (del conflitto n.d.r.) su una piattaforma cattolica”, ha dichiarato Lavrov. “Penso che per lo stesso Vaticano non sarebbe molto comodo ricevere delegazioni di due Paesi ortodossi in queste condizioni”, ha proseguito il ministro.

Negoziati

E dopo che la Santa Sede e Papa Leone XIV si erano detti disponibili a ospitare colloqui di pace ricevendo il sostegno di Trump e dei leader europei, le frasi di Lavrov hanno chiarito che il Cremlino continua la sua partita senza accelerare sulle trattative di pace. E tutto questo mentre il maxi-scambio di prigionieri concordato a Istanbul (mille russi e mille ucraini) e iniziato ieri con i primi 390 rilasciati per parte sembrava il preludio a una maggiore disponibilità al dialogo.

Accordo con Zelensky

Del resto, Lavrov ieri non si è limitato ad affossare la proposta del Vaticano come teatro dell’ipotetico colloquio. Il ministro russo, infatti, ha anche fatto intendere (nemmeno velatamente) che l’eventuale accordo di pace dovrà basarsi sulla “legittimità” del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Un tema molto caro a Putin e anche al suo sistema di propaganda, che da tempo considerano il leader di Kyiv una figura illegittima in mancanza di nuove elezioni presidenziali rese impossibili dall’invasione. “Prima dobbiamo avere un trattato, e poi, quando è stato concordato, decideremo. Ma il presidente Zelensky, come il presidente Putin ha detto ripetutamente, non ha legittimità. Questo è riconosciuto anche in Ucraina” ha detto Lavrov. Qualche osservatore pensa che Mosca vorrebbe una firma da parte del parlamento ucraino, la Verkhovna Rada. Ma l’obiettivo del Cremlino è anche rilanciare sul tema delle elezioni. Cosa che però l’Ucraina esclude con una guerra in corso, la legge marziale in vigore e con un territorio parzialmente occupato.

I dubbi di Lavrov

I punti interrogativi sollevati da Lavrov sono quindi due. Uno è la sede del tavolo negoziale. L’altro è addirittura quale controparte la Russia considera legittima. Sul secondo aspetto, l’Ucraina ha già chiarito. Sul primo rischia invece di aprirsi un’altra sfida. Se tramonta l’ipotesi Vaticano, la candidatura di Istanbul può essere ritenuta di nuovo valida, forte anche dell’esperienza dell’ultimo vertice diretto tra delegati russi e ucraini. Qualcuno (specialmente Kyiv) ha proposto Ginevra. E la disponibilità della Svizzera è stata confermata anche dal consigliere della presidenza ucraina, Andriy Yermak. Ma questi dubbi sul negoziato si sommano anche a quello che è il più importante (e legittimo) dubbio di sottofondo, cioè se sia davvero arrivato il tempo di un accordo.

Garanzia a Kiev

Ieri, gli oltre cento droni lanciati dall’Ucraina verso Mosca (la terza ondata consecutiva da parte delle forze del Paese invaso) hanno confermato come Kyiv non sia ancora disposta a cedere senza garanzie. E dal canto suo, Putin non ha dimostrato sul campo alcun interesse al dialogo. Dopo che il Cremlino ha annunciato la creazione di una “zona cuscinetto” intorno ai confini, la Difesa di Mosca ha comunicato di avere preso un altro villaggio, Radkovka, nel nord-est dell’Ucraina. E nel Mare di Barents, il test di un missile Kalibr lanciato dal nuovo sottomarino nucleare Arkhangelsk ha certificato che la militarizzazione della Russia prosegue a ritmo spedito.