Non serviva il rapporto reso l’altro giorno da una Commissione indipendente dell’Onu per sapere che miliziani e civili palestinesi (sì, anche civili palestinesi) hanno sottoposto a tortura e deliberatamente ucciso centinaia di donne e ragazze israeliane in una sistematica e selvaggia violenza di genere perpetrata durante il pogrom del 7 ottobre. Non serviva quel rapporto per sapere delle prove e delle testimonianze circa le donne “denudate”, “con le gambe divaricate” e con “i genitali esposti”, o in altri casi con “le mani e talvolta i piedi legati prima di essere rapite o uccise”. Non serviva quel rapporto per sapere che i corpi di quelle donne erano adibiti a “trofei”, passibili di quell’oltraggio perché erano i corpi di “cagne ebree”.

Si sapeva benissimo. Se non per altro, per il lavoro “social” fatto dalle bodycam e dagli smartphone con cui i miliziani e i civili che partecipavano allo scempio si divertivano a propalare le immagini dell’impresa. Eppure c’è chi ha ritenuto legittimo contestare il riferimento al delitto di genere e dunque l’uso di quella parola – femminicidio – a proposito delle centinaia di donne e ragazze israeliane assassinate durante l’assalto antisemita dell’autunno scorso.

Un’ordinanza del Tribunale di Roma ha creduto di poter indugiare sul “diritto di critica” che consentirebbe di contestare “l’asserita mancata attinenza tra il significato corrente di tale termine (cioè ‘femminicidio’) e gli attacchi terroristici di Hamas”. E se si trattasse della liberale celebrazione del diritto di chicchessia di manifestare il proprio pensiero, per quanto a vilipendio di una verità plateale, non sarebbe (quasi) nulla. Deve ben essere garantito, infatti, il diritto di esprimere anche l’opinione più oscena, nonché l’esercizio del negazionismo più disinibito.

Ma quel presunto diritto di critica – incartato nel provvedimento giudiziario che lo legittima – è adoperato per accusare di mendacio e di cospirazione vittimistica chi si azzarda a parlare di “femminicidio”, un delitto rispetto al quale si può certamente invocare condanna e sanzione se riguarda una donna della Repubblica democratica fondata sull’antifascismo, ma dubitabilmente se a esserne vittima è l’appartenente femminile all’Entità Sionista, la donna o la ragazza israeliana.

Ovvero la “cagna ebrea”, secondo la definizione di quello che la uccide ma – per carità – senza fare femminicidio perché il partito dei garantisti per il 7 ottobre spiega, con patente giurisdizionale, che il termine è inappropriato.