Nei suoi primi mesi da ministro, Sangiuliano non ci ha fatto mancare qualche gaffe, qualche provocazione per fare venire allo scoperto i più ingenui fra i politicamente corretti, e anche qualche nomina di non esaltante qualità. Del resto, è un uomo di comunicazione, dunque sa che la comunicazione è tutto, o quasi; e l’ansia di apparire lo può dunque tradire (ci penserà il tempo a temperare il suo ardimento). Eppure, quanto ai beni culturali, non si può certo dare un giudizio negativo sul suo esordio. In particolare, è importante che Sangiuliano abbia continuato la riforma dei musei statali aperta da Franceschini; l’abbia anzi rilanciata, giacché il già ministro ferrarese aveva dato diversi segnali di non voler sfidare oltre il corpaccione flemmatico della burocrazia ministeriale. A tale fine occorreva e occorre continuare a dare autonomia ai musei più grandi, aggregando a questi, per materia o per area, quelli minori, che non hanno la taglia per vivere da soli.

E diminuire il numero dei musei inclusi nelle direzioni regionali, dove erano confluiti tutti i musei non resi autonomi, una sorta di “resto”, per definizione quindi realtà incapaci di avere una identità. E Sangiuliano l’ha fatto. Un paio di mesi fa ha portato da 44 a 60 i musei autonomi, accorpando a molti di questi altri musei più piccoli in modo da fare godere anche a loro i piaceri dell’autonomia.
Certo, l’autonomia non basta a trasformare i musei in aziende efficienti, attraenti, capaci di produrre e comunicare cultura, di provvedere ai restauri e ad una regolare manutenzione, di catturare un nuovo pubblico, con un riguardo particolare per gli italiani meno istruiti e per i “nuovi italiani” che dobbiamo aiutare a conoscere non solo la nostra lingua ma anche la nostra civiltà. Certo, l’autonomia non basta, ma l’esperienza della riforma Franceschini dimostra in modo univoco che l’autonomia (che significa bilancio proprio, le entrate restano in cassa e “non vanno più a Roma”, separazione dalle soprintendenze, presenza di un direttore dedicato), per quanto parziale (i musei statali non hanno ancora la gestione del personale, tratto che invece hanno le fondazioni, che infatti ovunque funzionano meglio) è la base per migliorare le prestazioni di questi istituti. Con la riforma del 2015, ogni anno da allora, salvo Covid, i visitatori dei musei italiani sono aumentati ovunque in doppia cifra. Certo, commentano i reazionari, quelli di sinistra più di quelli di destra, bisogna poi accertare cosa hanno capito! Certo, ma è anche indubitabile che è impossibile che i meno istruiti acquisiscano cultura se nemmeno ci entrano, nei luoghi di cultura!

Epperò. Epperò l’autonomia così come praticata finora non basta. Su altri due aspetti il Ministero appare disattento. Il primo: fra i primi 20 direttori assunti nel 2015 solo una, Anna Coliva, bravissima direttrice di Galleria Borghese, proveniva dal Ministero. Gli altri erano stati “rubati” ai comuni italiani (uno ero io), alle università anche straniere, ai musei di altre nazioni. Iniziava così, sorprendentemente grazie allo Stato, la lenta creazione di un mercato del lavoro per manager della cultura, specialisti che hanno maturato capacità gestionali o manager capaci di dialogare con gli specialisti della cultura, assunti a tempo determinato con selezioni pubbliche, non troppo diversamente da quanto avviene per i capitani d’azienda. Da quel giorno quell’apertura degli apparati ministeriali a forze fresche, portatrici di esperienze diverse, si è ristretta agli esiti di concorsi pubblici vecchia maniera o alla mobilità interna. Il secondo gruppo di 10 registrava qualche presenza esterna, poi più nessuno, inclusi gli ultimi nominati sotto Sangiuliano.

Tutti i nuovi direttori sono ministeriali, con lo stile di direzione che ne consegue, abbastanza lontano dall’approccio aziendale. E il secondo tratto è ancora più preoccupante: non c’è nessuno straniero. Un notevole restringimento della platea di reclutamento. Un impoverimento. È il frutto, certamente, delle insensate polemiche del 2015 contro gli Schmidt (che per contrappasso potrebbe persino diventare sindaco di una capitale della italianità come Firenze!), i Bradburn, le Hollberg, i Bellenger, gli Zuchtriegel (che poi giustamente è stato promosso da Paestum a Pompei); ma anche dei messaggi di non particolare gradimento lanciati dallo stesso Sangiuliano. Non vorrei però che fosse ancora peggio: che nemmeno per gli intellettuali, per gli storici dell’arte e dell’architettura, per gli archeologi, l’Italia sia ormai un paese appetibile, viste le condizioni generali del paese e del sistema culturale in particolare. Colpisce che nessuno storico dell’arte europeo ambisca agli Uffizi, o a Capodimonte; nessun archeologo per Taranto o Reggio Calabria. E colpisce che questa assenza non sia stata né notata né commentata. Almeno per l’arte dovremmo rimanere oggetto del desiderio.

Mauro Felicori

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