“Gli Stati membri dovrebbero fornire (…) informazioni chiare, complete e tempestive riguardanti qualunque misura che vada ad incidere sul diritto di libera circolazione”. Così si esprime la Raccomandazione “su un approccio coordinato per agevolare la libera circolazione in sicurezza durante la pandemia di Covid-19” adottata dal Consiglio dell’Ue qualche giorno fa. A leggere le regole italiane, recentemente modificate in due successivi decreti-legge del 24 dicembre 2021 e 4 febbraio 2022, non sembra che il nostro Governo abbia centrato pienamente l’obiettivo della “chiarezza”.

La questione riguarda la durata di validità del green pass in Italia e, dunque, la durata dei vantaggi ad esso connessi. Nel primo decreto si è previsto che la durata di tutti i green pass (dopo il primo ciclo, dopo la guarigione o dopo il booster) fosse ridotta da nove a sei mesi. Questa soluzione ha fatto sorgere perplessità. Soprattutto perché la Commissione europea, pochi giorni prima che il governo italiano intervenisse, aveva adottato un Regolamento contenente una disciplina più “generosa”. In particolare, avvalendosi delle indicazioni tecnico-sanitarie del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (l’agenzia dell’Unione che funge un po’ da Cts europeo), la Commissione aveva stabilito: a) che “i certificati comprovanti il completamento del ciclo di vaccinazione primario sono accettati solo se non sono trascorsi più di 270 giorni (9 mesi) dalla data dell’ultima dose di tale ciclo” e b) che per coloro che si fossero sottoposti al booster non fosse nemmeno opportuno stabilire un termine di durata.

La soluzione europea di spingere per uniformare i regimi di durata della certificazione, è stata motivata da un preciso obiettivo, sempre ispirato all’esigenza di certezza per i cittadini. In Europa si è infatti preoccupati che “l’adozione di misure unilaterali in questo settore (da parte dei singoli stati ndr) possa causare gravi perturbazioni ponendo le imprese e i cittadini dell’Unione di fronte a un’ampia gamma di misure divergenti”. Una incertezza che, oltre ad avere effetti sulla fragile situazione economica, potrebbe comportare anche “il rischio di minare la fiducia nel certificato digitale Covid dell’UE e di compromettere il rispetto delle necessarie misure di sanità pubblica”. Alla luce di tale situazione appariva evidente il disallineamento tra disciplina europea e disciplina interna.

Con il d.-l. del 4 febbraio il governo ha modificato il precedente intervento. Innanzitutto ha eliminato le discrepanze quanto alla durata del certificato nel caso di vaccinazione con booster o di guarigione per chi si fosse comunque sottoposto al primo ciclo di vaccinazione. Cosicché, anche in Italia, ora non ci sono più termini di validità per il green pass emesso a seguito di tali circostanze. A dire il vero, anche per questa parte, non sono eliminate tutte le ambiguità. La disciplina è retroattiva o meno? Cioè può applicarsi ai “supervaccinati” e ai guariti prima di febbraio e che a oggi hanno ancora una certificazione che prevede il limite di sei mesi? Il punto non è chiaro. Il governo è, poi, intervenuto sulla certificazione per chi abbia fatto il primo ciclo. In questo caso però, anziché eliminare ogni differenza, ha deciso di stabilire una disciplina speciale per i soli stranieri. Intanto non è chiaro se con “stranieri” si faccia ai cittadini extra-Ue o anche a quelli dell’Unione il dubbio è più che fondato perché, ormai, nella legislazione si usano espressioni molto chiare proprio per distinguere se ci si riferisce a paesi dell’Unione o a stati terzi.

Comunque, ammettiamo pure che la disciplina si applichi a tutti gli stranieri, compresi i cittadini UE. È sufficiente la soluzione governativa a rimediare alle incongruenze di cui si diceva all’inizio? Purtroppo no. Il governo ha infatti previsto che per gli “stranieri” valga la durata del certificato anche superiore ai sei mesi. Costoro, sono tenuti solo a fare un tampone se vogliano svolgere attività che per gli italiani richiedono invece il super green pass. Insomma se una famiglia “straniera” viene da noi per dieci giorni di vacanze, non sarà obbligata ad avere il green pass di validità “italiana”, qualora abbia una certificazione valida oltre i sei mesi nel paese d’origine, ma, per entrare in un museo, dormire in albergo o andare a cena, dovrà farsi almeno un tampone antigenico ogni due giorni (o molecolare ogni quattro). La disparità di trattamento dunque rimane: super green pass per gli italiani (e residenti) tampone per gli “stranieri”. Al lettore giudicare se l’obiettivo della chiarezza sia stato centrato. A noi non sembra, così come non convincono altre cose.

La prima: per quale motivo lo stesso vaccino, che l’Ecdc ritiene adeguato a dare una copertura di nove mesi, da noi viene considerato efficace solo per sei? Ma non c’era una quasi totale unanimità nella comunità scientifica sulla profilassi anti-covid? Inoltre, anche ad ammettere che la divergenza della disciplina interna si giustifichi per speciali ragioni di interesse pubblico, tanto da creare una discriminazione a rovescio a danno dei cittadini italiani e residenti nazionali non sarebbe stato il caso di esplicitare tali “speciali” ragioni? Specificazione tanto più opportuna in quanto anche situazioni meramente interne agli Stati possono produrre delle discriminazioni (“a rovescio”, appunto) a carico dei cittadini residenti in uno Stato membro, in questo caso italiano, rispetto al trattamento più favorevole riservato dalla normativa europea agli altri cittadini dell’Unione. Un principio di parità di trattamento che, dal diritto dell’Unione europea, è ormai transitato nella legislazione italiana, e riconosciuto dalla Corte costituzionale (sent. 443/97).

Tutto ciò, si aggiunga, in un momento in cui i dati sulla pandemia indicano un miglioramento del quadro sanitario nazionale, e dunque spingono verso la necessità di un graduale ritorno alla normalità. Rispetto alla situazione, dunque, un termine così breve di durata del green pass si pone, evidentemente, in controtendenza. Infine, siamo sicuri che la scelta di richiedere comunque un tampone agli “stranieri” che abbiano un certificato valido nel loro paese, ma non in Italia, sia sufficiente a favorire nel nostro paese la ripresa del turismo, di cui abbiamo bisogno come il pane? Come abbiamo scritto più volte, la certezza del diritto e la ragionevolezza delle soluzioni non è solo una questione di semplificazione della vita dei cittadini o di legittimità delle misure, ma anche, come ha scritto la Commissione, un modo per evitare “il rischio di minare la fiducia nelle misure di sanità pubblica” e, più in generale, nella credibilità dei governanti.

Giovanni Guzzetta, Mario Carta

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