Siamo proprio sicuri che un processo per omicidio sia la strada giusta e migliore per combattere il razzismo che flagella gli Stati Uniti, camuffato sotto le vesti linde e ipocrite del politicamente corretto? Scommetteremmo davvero sul fatto che una eventuale e probabile condanna esemplare, cioè sovradimensionata rispetto al crimine per punirne l’indiscussa odiosità più che la reale portata “preterintenzionale”, non finisca per diventare un alibi da manuale, la classica foglia di fico necessaria per sedare la rabbia dei ghetti più che per colpire la malattia alle origini?

Sia chiaro: Derek Chauvin, l’agente che ha ucciso George Floyd soffocandolo col ginocchio per quasi 10 minuti, doveva essere processato e condannato. Non è di questo che si discute. Ma le manifestazioni di gioia e di esultanza, l’altro ieri notte, sono state sovrastate dai colpi di pistola sparati da un agente che a Columbus, Ohio, hanno ucciso una ragazza nera di 16 anni. Il controcanto all’intervento diretto sul processo del presidente degli Stati Uniti, in sé discutibile quale che sia l’odiosità del crimine, è stata la diffusione del video dell’esecuzione del latino Adam Toledo, 13 anni, ammazzato a Chicago dalla polizia con le mani in alto. Sull’intero processo si è allungata sinistra l’ombra dell’uccisione a Minneapolis del ventenne nero Daunte Wright, fermato per un deodorante a forma di alberello appeso allo specchietto della macchina.

Il pregiudizio che ha spinto Chauvin a tenere premuto quel ginocchio nonostante le invocazioni sempre più disperate di George Floyd e che ha armato la mano di Kim Potter, la poliziotta che ha sparato a Wright, sono i sintomi, non il virus. Combattere i sintomi ha il suo peso nel contrastare un morbo ed è certo che l’impunità della quale ha goduto, in molte città, la polizia degli Usa è uno dei più letali tra quei sintomi. Ma sempre di sintomi si tratta e festeggiare come se si fosse finalmente aggredito il male alle radici è forse fuori luogo. La discriminazione orgogliosa e conclamata, l’epoca buia delle Jim Crow Laws, sono state battute in altro modo, con altri mezzi: diversi tra loro ma sempre fondati sulla partecipazione dal basso e sulla presa di parola dei diretti interessati, poi su leggi strappate e conquistate da quei movimenti che provavano almeno a risolvere i nodi all’origine del problema, non solo a punirne le manifestazioni estreme.

Questo erano la disobbedienza civile e le oceaniche marce di Martin Luther King, l’orgoglio nero di Malcolm X, la rivolta dei ghetti a partire dall’esplosione di Watts nel 1965, il tentativo rivoluzionario del Black Panther Party. Movimenti di quel genere chiederebbero oggi di disarmare la polizia ma anche di rivedere dalle fondamenta l’intera gestione del controllo e dell’ordine pubblico soprattutto nei ghetti e aggredirebbero la linea frastagliata per cui passano le nuove Jim Crow Laws, il razzismo moderno: quella di una povertà, di una disperazione, di una assenza di alternative legate in buona misura al colore della pelle.

Non è neppure vero, o almeno non del tutto, che affidarsi ai processi e alle sentenze è comunque un passo avanti, e dunque perché non festeggiare? Il compito del processo, in un Paese di cultura davvero democratica, è quello di esercitare giustizia non quello di rieducare la popolazione. Ogni volta che lo strumento dell’amministrazione della giustizia viene usato impropriamente a fini “pedagogici”, con l’obiettivo non soltanto di punire un reato ma di dare un esempio e intervenire così su mentalità “da rieducare” si apre un varco pericoloso e subdolo. Senza neppure ottenere in cambio successi e risultati non solo di facciata. Perché non basta sostituire l’antico e osceno “Nigger” con “N-word” per sconfiggere o incrinare il razzismo. Non basta neppure condannare in modo esemplare un poliziotto omicida e poi brindare per strada.