Sentir dire, oltre a tutto dalla bocca di un giudice, dopo l’omicidio di Vanessa Zappalà, la numero 41 di quest’anno, che “la donna non riesce a tenere una condotta univoca” nei confronti del maschio predatore, quello che poi la violenta oppure arriva a ucciderla, riporta lontana la memoria, a quel famoso “Processo per stupro” del 1979.

A triste disperante dimostrazione che quarant’ anni non sono bastati. Non sono stati sufficienti alle donne per riuscire a difendere il proprio corpo e la propria dignità. Non sono bastati per gli uomini a far proprio il problema che li riguarda in prima persona, tutti quanti. Perché i predatori sono maschi, e non c’è guerra in cui il corpo violato delle donne non sia il trofeo esibito dai vincitori. E non c’è violenza di gruppo in cui non si senta dire –ancora, ancora!- che “lei ci stava”. E ci tocca anche avere nelle orecchie, e subito dopo nella mente e nel corpo la voce di un giudice che invita La Donna, cioè tutte le donne, tutte noi a “tenere una condotta univoca”.

Vanessa Zappalà era una giovane donna di 26 anni. Quale sia stata la sua condotta di vita, lo possiamo immaginare. Normale. Non sappiamo se indossasse la minigonna, ossessione dei maschi degli anni settanta, sicuro indizio di leggerezza sessuale da parte di chi la indossava. Evocata come strumento del diavolo da tronfi avvocati maschi in ogni processo per molestie o violenza sessuale, come attenuante per lo stupratore. Poco sappiamo anche della relazione sentimentale tra Vanessa e il suo ex fidanzato-assassino, che le ha dato e si è dato la morte, la pena che non è neppure prevista dal codice. C’è solo un macabro ritornello che insegue la donna che non ama più: se non sei più mia, non potrai essere di nessun altro.

E’ più che possesso, è oscuro retropensiero che ci porta d’un tratto un pezzo di Afghanistan, quello dei Talebani, sull’uscio di casa. “Io sono mia” gridavamo nelle strade e nelle piazze negli anni settanta, indicando con il gesto dei due pollici e indici uniti in alto, la nostra libertà sessuale. Non volevamo essere di nessun altro, neppure di chi ci amava.
Vanessa aveva un po’ litigato e un po’ perdonato, come facciamo tutte noi donne, davanti al predatore che si mostrava pentito. Manipolatore, in realtà. Ma le denunce della ragazza erano “univoche”, parlavano per lei. E avrebbero meritato maggior ascolto. Diversa sensibilità, più che altro. Perché il problema qui e oggi non è più quello dell’aumento delle pene.

Intanto perché mai, nella storia del mondo intero, qualcuno è andato a consultare il codice penale prima di commettere un reato, in particolare i delitti più gravi come lo stupro e il femminicidio. Mai l’inasprimento delle condanne ha dissuaso qualcuno dal commettere delitti. E poi anche perché di questo tipo di comportamenti devianti si occupano solo le donne. Lo vediamo ogni volta, fin dal 1996 quando la violenza sessuale divenne finalmente reato contro la persona e non più contro “la morale” (orrore!), fino al recente Codice Rosso di due anni fa, sono sempre le donne, per fortuna ormai numerose in Parlamento, le protagoniste di ogni riforma sui propri diritti. Sono loro a essere ferite, sono loro a cercare le soluzioni. Con tutte le contraddizioni del caso, perché anche ogni aumento di pena è una ferita.

Se si stesse parlando della normale vita quotidiana dei tribunali, dovremmo dire che nel caso di Vanessa, la legge è stata applicata. Arresti domiciliari per lo stalker, poi attenuati dal gip con il divieto di avvicinamento alla vittima. Ma non siamo in una situazione di normalità, siamo nella prevedibilità, con alta percentuale, che quel predatore ossessionato dal “o mia o di nessun altro”, attuerà un femminicidio, cioè ucciderà l’oggetto della propria possessività. Da gennaio a questo agosto, ogni mese quattro e cinque e sei donne uccise fino a 41 con Vanessa, in una vera guerra dei sessi, dove non ci sono più sentimenti, ma l’annullamento di persone tramite l’appropriazione totale del loro corpo: me lo prendo come bambola rotta quando lo violento, lo distruggo quando non lo voglio più, perché dalla sua bocca è uscito un NO.

Vede, giudice Sarpietro, lei che aveva espresso tanta ammirazione nei confronti dell’ex premier Conte, lei che si è fatto beccare con il piccolo privilegio di far aprire un ristorante chiuso in zona arancione, lei che ha detto la famosa frase sulla carenza di condotta univoca non di Vanessa, ma “della Donna”, cioè di tutte noi. Lei dimostra, come ogni giorno tanti uomini, come tanti magistrati, come tanti legislatori, che tutto sommato dei diritti delle donne non le importa niente. Per lei è solo burocrazia, il suo collega gip ha applicato la norma. Ci sono leggi speciali, procuratori speciali, carceri speciali, spazzacorrotti e ossessioni varie con cui è stato rimpinzato fino a esplodere il nostro codice penale. Siamo intercettati in Italia più che negli interi Stati Uniti. Le conferenze-stampa sul pericolo-mafia che c’è e anche su quello che non c’è, del procuratore Gratteri inondano giornali, tv e social. Alcuni ossessionati ancora indagano su una trattativa che non c’è mai stata, né trent’anni fa né negli anni successivi. E altri, ancora ossessionati dai processi bis e ter, vogliono sapere che cosa faceva Berlusconi la notte.

Ma per i diritti delle donne non c’è mai tempo. Vengono presi alla leggera, come se non corresse il sangue più che per i delitti di mafia. Ancora ricordo quel deputato che gridò in aula “ma chi ve l’ha chiesto?”, mentre noi, per arrivare a una votazione importante che spazzava via il concetto di “morale” dalla violenza sui nostri corpi, avevamo detto che avremmo rinunciato all’intervento orale, e presentato quello scritto. Più che una battuta volgare, quella frase mostrava il disinteresse dell’uomo. E allora, visto che, pur lasciando l’ultima parola ai magistrati, forse il Parlamento potrà dire la sua sulle priorità di indagine, per quest’anno si scelga il femminicidio come precedenza assoluta. E i magistrati si impegnino a allontanare davvero i predatori dalle loro vittime. Fisicamente. Si usi il carcere, che non ci piace, o un altro luogo di isolamento, una comunità, o il domicilio con braccialetto elettronico, ma si tengano lontani i persecutori dalle loro prede. Almeno questo ci è dovuto, perché quella drammatica contabilità delle vittime di quest’anno si fermi a 41. Mentre ci diamo da fare per liberare le donne afghane dai loro burka, per favore liberiamoci anche dai nostri.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.