Le elezioni del 25 settembre hanno dato l’esito atteso di una maggioranza delle destre nel parlamento autoridotto dai tagli e indebolito da trent’anni tondi di antipolitica. Le destre, è vero, non sono maggioranza nel Paese e non hanno davanti un percorso in discesa. Governeranno. E dovranno fare i conti con la distanza tra le promesse elettorali e la fatica del governare. È un bene se produrrà una crescita della cultura di governo anche in quel campo, è un rischio se si trasformerà nella ennesima disillusione verso la Politica.

Il rischio è alto e completa un quadro che vede dal 1992 un processo di disincanto e disimpegno, figlio di un meccanismo pericoloso che ha portato le scelte politiche lontane da un confronto sulla visione del mondo e la capacità di riconoscere e rappresentare interessi contrapposti di categorie sociali ed aree diverse del Paese, e le ha piuttosto via via ingaggiate sulla novità del momento, su improbabili palingenesi rigenerative. La crisi delle democrazie è profonda e quasi universalmente distribuita. La maggior parte delle donne e degli uomini che abitano il pianeta sono oggi governati da dittature. Il vento dell’89 che sembrava soffiare da ovest ad est portando con sé libertà crescenti e allargamento dei diritti ha cambiato direzione, e la riduzione delle garanzie del lavoro, delle forme di partecipazione, della perdita di capacità culturale e di diffusione degli strumenti critici è diventata dominante. Il diritto alla conoscenza.

È in questo contesto che si inserisce la riflessione su come dovrebbe muoversi il Partito Democratico dopo l’esperienza della lista progressista e a seguito della formalizzazione delle dimissioni da parte del segretario. Innanzitutto dovrebbe darsi le condizioni per un congresso. Alla sua nascita il Pd ha scelto la via innovativa delle primarie per provare a rompere le barriere crescenti di una distanza tra politica, partito e cittadini, e contrastare la riduzione degli iscritti che privava il meccanismo tradizionale dei congressi di quel coinvolgimento di massa che dava significato e forza ai grandi partiti popolari del Novecento. Ma le primarie funzionano nell’imminenza di una secondaria, misurano il consenso popolare di una proposta politica incarnata da una figura rappresentativa, possono essere un sistema di scelta tra diverse sfumature dell’azione politica e di misurazione del consenso di questa o di quell’altra linea.

La situazione attuale è diversa e chiederebbe lo sforzo di un percorso che vada più in profondità, che prima di definire le figure definisca i fondamentali e anche nuove regole interne sui meccanismi di rappresentanza. E affronti il nodo di una dimensione europea dell’organizzazione della politica e della discussione politica, nella direzione di un partito dei progressisti e dei democratici europei che possa coinvolgere milioni di donne e di uomini nel confronto comune di portata almeno continentale sulle regole del lavoro, sui modelli di sviluppo, sulle fondamentali azioni per la mitigazione della crisi climatica, sui grandi orizzonti delle alleanze internazionali, della guerra, della pace, dei diritti umani nel mondo, sulla vicinanza alle persone che soffrono la privazione della libertà in Afghanistan come in Iran, in Cina come in Venezuela e sulle azioni che la comunità internazionale può mettere in campo.

Nel contesto nazionale infine, con l’inaugurazione del nuovo Parlamento e in vista della formazione del Governo serve subito un coordinamento delle forze dell’opposizione che individuino pochi temi fondamentali su cui battersi in modo coeso e mostrare un’alternativa possibile, non pregiudiziale, alle azioni del Governo. Gioverebbe la costituzione di un Governo ombra che incarni questa alternativa e mostri la possibilità concreta di altre strategie per affrontare i problemi del Paese. Partendo dal tema dei temi: l’investimento culturale, la forma nuova di una democrazia che sia capace di coinvolgere ed entusiasmare. Sorprendere, stupire, evitare le liturgie e buttare il cuore oltre l’ostacolo. Fare Politica.