Il prossimo 13 ottobre si riuniranno le nuove Camere. Il loro primo adempimento sarà l’elezione dei rispettivi Presidenti. Si tratta di un appuntamento cruciale che potrebbe offrire preziose indicazioni politiche e istituzionali, innanzitutto sui rapporti tra la futura maggioranza di governo di destra-centro e le opposizioni nonché all’interno della prima.

Entrambi i regolamenti infatti cercano di favorire, almeno nei primi scrutini, la convergenza delle forze politiche su un candidato condiviso. Questo vale soprattutto alla Camera, dove per eleggere il nuovo Presidente occorre la maggioranza dei due terzi dei componenti al primo scrutinio (cioè 267 voti su 400) e quella dei voti al secondo e terzo. Entrambi quorum irraggiungibili per la nuova maggioranza, che può contare su 237 seggi. Vale meno invece al Senato, dove al primo e secondo scrutinio è richiesta la maggioranza assoluta dei componenti (cioè 101 voti a fronte di una maggioranza che può contare su 115), al terzo la maggioranza assoluta dei voti che, se non raggiunta, conduce a un quarto ed ultimo scrutinio di ballottaggio tra i primi due votati.

Il motivo di questa accelerazione, non prevista alla Camera, è presto detto: occorre eleggere subito il presidente del Senato perché supplente del presidente della Repubblica nel caso in cui questi non sia in grado di adempiere alle sue funzioni (art. 86.1 Cost.). In ragione di quanto sopra si è invero semplicemente sussurrato di una possibile attribuzione di una delle due Camere, e segnatamente della Camera dei deputati, a un esponente del maggior partito d’opposizione, e quindi del Partito democratico. Verrebbe in tal modo ripresa una convezione parlamentare inauguratasi nel 1976, con l’elezione di Ingrao (va però ricordato che il Partito comunista allora se non faceva parte formalmente della maggioranza che aveva conferito la fiducia al governo, di certo non gli era pregiudizialmente contrario e anzi arrivò a non votare la sfiducia al governo Andreotti nato dopo il rapimento Moro), e mantenutasi fino al 1992, quando la Iotti presiedette la Camera nella successive tre legislature (1979-1983, 1983-87 e 1987-1992, brevemente interrotta nel 1992 con l’elezione del democristiano Scalfaro (subito dopo eletto presidente della Repubblica) e ripresa, per poi concludersi, con l’elezione di Napolitano come sue successore fino al 1994.

Da allora tutti i presidenti della Camera, al pari di quelli del Senato, sono stati esponenti della maggioranza di governo. Questo perché, al di là di una certa interpretazione mistica del ruolo del Presidente di stampo anglosassone come garante imparziale del buon andamento dei lavori (avvalorata dalla consuetudine parlamentare per cui dalla decisione di Crispi del 1877 il Presidente non interviene nel dibattito parlamentare e non partecipa alle votazioni), in realtà egli è “uomo della maggioranza” ed esercita poteri fondamentali ai fini dell’attuazione dell’indirizzo politico di governo, peraltro ampliatisi nel corso del tempo. Egli infatti, in caso di mancata delibera della Conferenza dei capigruppo, predispone lo schema di programma e calendario, tenendo conto degli orientamenti prevalenti (alla Camera tale schema viene solo comunicato, al Senato invece può essere modificato dall’Aula); giudica sull’ammissibilità degli emendamenti e decide il loro ordine di votazione; interpreta ed attua il regolamento interno.

Inoltre, la durata quinquennale della carica e la sua irrevocabilità conferisce ai Presidenti una visibilità politica e mediatica che essi sfruttano facendo ampio ricorso al potere di esternazione (avete mai notato che i telegiornali della Rai danno puntualmente notizia delle attività e dei comunicati dei Presidenti delle Camere, per quanto il più delle volte politicamente irrilevanti?). Addirittura nella legislatura appena trascorsa il presidente della Camera ha condotto un’attività di “politica estera” sostenendo la (meritoria, s’intende) battaglia per la verità su Giulio Regeni, venendosi così a sovrapporre a quella della Farnesina.

Tutto ciò spiega perché da 1994 in poi i presidenti delle Camere, pur non rinunciando formalmente a presentarsi come soggetti imparziali, in realtà esercitano una neutralità attiva in quanto espressione del maggioranza di governo. E spiega anche il motivo per cui da allora i presidenti delle Camere sono stati, con l’eccezione di Violante del 1996, sempre esponenti o leader dello junior partner cioè del secondo partito della maggioranza di governo: così Pivetti (Lega) nel 1994-96, Casini (Udc) nel 2001-06, Bertinotti (Rifondazione comunista) nel 2006-08, Fini (Alleanza Nazionale) nel 2008-13, Boldrini (LeU) nel 2013-18. La Presidenza Fico (M5s) nel 2018-22 si spiega con gli incerti esiti delle precedenti elezioni e quindi con l’impossibilità di delineare una chiara maggioranza di governo; da qui la scelta del M5s di rivendicare per sé la Presidenza della Camera lasciando a un esponente del centrodestra quella del Senato.

Alla luce di questi precedenti, pare evidente che non ci siano assolutamente i presupposti perché si possa tornare alla convenzione pre-maggioritaria di attribuire a un esponente dell’opposizione la presidenza di una delle due Camere (rectius: della Camera dei deputati). È molto probabile dunque che, sulla scia dei precedenti, alla Lega per Salvini, quale junior partner della nuova maggioranza di governo, spetti la Presidenza della Camera mentre Fratelli d’Italia rivendichi per un suo esponente la Presidenza del Senato, quale seconda carica dello Stato quasi come rivincita dopo la disastrosa gestione (altrui) dell’elezione del Presidente della Repubblica. C’è però un fattore di natura personale da non sottovalutare. Veniamo da due legislature in cui, proprio a seguito di tali spartizioni politiche, le presidenze delle Camere sono state ricoperte da esponenti politici privi di esperienza parlamentare e che, anche per questo, si sono rivelati a mio parere assolutamente inadeguati al ruolo. L’incapacità di tenere l’ordine delle sedute, nonostante i ripetuti richiami, denota mancanza di autorevolezza, cioè di quel rispetto che il Presidente si conquista non per autorità ma per sensibilità istituzionale e politica dimostrata sul campo.

Sono stati diversi invece i casi in cui, in determinati passaggi cruciali, entrambi i Presidenti hanno pagato lo scotto della loro inesperienza, diventando facilmente influenzabili da parte della potente alta burocrazia parlamentare, abile nel tirare fuori al momento giusto il precedente opportuno o a presentare come obbligata solo una delle soluzioni proceduralmente possibili: dalla gestione della pandemia alla lasca interpretazione dei requisiti per costituire gruppi politici (che al Senato ha di fatto vanificato la riforma del 2017), dalla acquiescente atteggiamento sull’ammissibilità degli emendamenti (specie quando maxi) alla mordacchia messa agli strumenti ispettivi dell’opposizione, dalla pilatesca gestione della presidenza del Co.pa.sir.

Dopo la nascita del governo Draghi al controllo sulla legittimità costituzionale degli statuti dei gruppi parlamentari (specie di quello del M5s): tutte vicende in cui i Presidenti hanno sempre puntualmente evidenziato un approccio ora troppo, ora troppo poco formalistico denotando la loro incapacità di cogliere la dimensione politico-istituzionale del problema per mancanza di esperienza parlamentare e di sensibilità politico-istituzionale. Una mancanza di sensibilità istituzionale di cui l’opinione pubblica si è potuta plasticamente rendere conto vedendo il presidente del Senato armeggiare con il proprio cellulare con olimpica indifferenza rispetto allo scrutinio delle schede in corso per l’elezione del presidente della Repubblica.

Ecco, se Presidenti di maggioranza debbano essere, com’è legittimo che sia, ci si fatta grazia stavolta che a quel soglio non accedano dilettanti allo sbaraglio. Il centrodestra ha tra l’altro parlamentari di lungo corso, che hanno già ricoperto le cariche di vice-presidente, di cui uno (il sen. Calderoli, se il lettore ci perdona il riferimento personale) è un profondo conoscitore del diritto parlamentare e un grandissimo esperto delle sue dinamiche, avendo peraltro offerto il suo contributo decisivo nella riforma del regolamento del Senato del 2017 e dello scorso luglio. Riforme che, guarda caso, non sono riuscite ad essere approvate invece alla Camera (da qui il pubblico elogio che ne fece il Presidente Napolitano). La legislatura che va ad iniziare sarà per molti versi tanto importante quanto ricca di incognite. Poter finalmente contare su presidenti all’altezza delle sfide che ci attendono non può che rappresentare quantomeno un rassicurante viatico.