Non è affatto escluso che il “pacchetto Israele” approvato da Donald Trump a poche ore dall’insediamento fosse parte delle assicurazioni che il presidente eletto, nei giorni scorsi, aveva fatto allo Stato Ebraico mentre esercitava notevoli pressioni affinché Benjamin Netanyahu accettasse di concludere l’accordo con Hamas.
Le generiche e inattuabili minacce di “scatenare l’inferno” se i terroristi non avessero rilasciato gli ostaggi, per quanto efficaci dal punto di vista delle immediatezze comunicazionali, in realtà vincolavano Trump a promesse campate per aria e lo mettevano in un vicolo cieco se Hamas non avesse ottemperato all’originaria intimazione.

L’ottenimento di un primo risultato simbolico – la liberazione delle prime tre donne israeliane – avrebbe invece assolto Trump dall’obbligo impossibile cui si era impegnato, cioè di risolvere la crisi tutta insieme, con un colpo di non si sa cosa. Per parte sua, Netanyahu avrebbe incassato quel primo risultato confidando che la non irrilevante opposizione alla conclusione di un accordo in quei termini, gravosissimi per Israele, sarebbe stata soverchiata dall’emozione per la liberazione delle tre sequestrate e poi, appunto, dalla soddisfazione per le misure che Donald Trump, sicuramente, aveva preconizzato durante la trattativa e che nelle scorse ore sono state sigillate in un elenco di notevoli e concretissimi provvedimenti. Una lista magari meno roboante rispetto al “costo infernale” evocato nelle pregresse conferenze stampa, ma capace di urtare in modo deciso l’andazzo accomodante e concessivo cui la precedente amministrazione aveva per mesi e mesi affidato il corso della crisi.

Si faccia attenzione. Non si tratta soltanto – per quanto la cosa rivesta enorme rilievo – della fornitura di armi a Israele, non escluse le famigerate bombe da 2000 libbre (si ricorderà come un Joe Biden ormai fuori controllo fosse stato impiccato a una frase che non aveva pronunciato, e cioè che Israele avrebbe usato quelle bombe “per uccidere i civili”). Si tratta anche, e la portata di queste altre misure è forse più significativa dal punto di vista politico, della conferma delle sanzioni a carico della Corte Penale Internazionale che ha emesso ordini di arresto a carico del primo ministro israeliano e dell’ex ministro della Difesa, poi della sospensione dei programmi di assistenza allo sviluppo estero, compreso il foraggiamento di alcune agenzie delle Nazioni Unite (inclusa l’Unrwa, cioè l’agenzia Onu per il sussidio dei rifugiati palestinesi, pesantemente screditata per documentate compromissioni con Hamas).

Ancora, si discute dell’espulsione dei titolari di visti per gli Stati Uniti che si siano resi responsabili di propaganda filo-Hamas o di iniziative di sostegno a organizzazioni che promuovono o finanziano campagne di odio discriminatorio e ideologico. Infine, Trump ha revocato l’ordine esecutivo con cui, il marzo scorso, l’amministrazione Biden aveva sanzionato alcuni coloni israeliani in Giudea e Samaria. Un ordine, quest’ultimo, di assai discutibile appropriatezza e giustizia non perché fosse rivolto a sanzionare questo o quell’israeliano responsabile di violenze (che effettivamente hanno intollerabile corso, ai danni dei palestinesi, nella cosiddetta West Bank), ma perché era articolato sul presupposto falso che attribuiva solo ai coloni, e non anche alle formazioni terroristiche palestinesi ben presenti in Cisgiordania, la situazione di “minaccia alla pace, alla sicurezza e alla stabilità” dell’area.

Naturalmente si può condividere, o no, il contenuto di questi provvedimenti. Il fatto che non siano stati adottati prima, da parte dell’amministrazione che aveva il potere di adottarli e se ne è astenuta, dice tuttavia in modo definitivo che l’alleanza degli Stati Uniti con Israele ha diversi modi per manifestarsi e rendersi effettiva. Ci sono i fatti e ci sono le parole. I fatti possono essere sbagliati. Le parole rischiano di essere soltanto giuste.