Il Pontefice si nega
Papa Francesco dribbla Trump, il blitz di Pompeo diventa un autogol
«Nel corso dei colloqui le parti hanno presentato le rispettive posizioni riguardo i rapporti con la Repubblica Popolare Cinese, in un clima di rispetto, disteso e cordiale. Si è parlato, inoltre, di alcune zone di conflitto e di crisi, particolarmente il Caucaso, il Medio Oriente e il Mediterraneo Orientale. L’incontro è durato circa 45 minuti». Lo ha riferito il direttore della Sala stampa vaticana in merito all’incontro tra il Segretario di stato cardinale Pietro Parolin e l’omologo statunitense Pompeo. Dietro il linguaggio felpato si cela lo scontro duro che ha visto la diplomazia pontificia rintuzzare con una inconsueta forza l’offensiva degli Usa. Tema della disputa: la Cina. Evidentemente a Trump non hanno spiegato che se la Cina è strategica per la sua campagna elettorale, lo è quanto meno altrettanto per la Santa Sede. E siccome il Papa non è in campagna elettorale, può muoversi con tutta un’altra libertà.
Per Trump la Cina conta per motivi commerciali e per mostrare i muscoli davanti al suo elettorato e guadagnare voti. Del resto il nemico esterno spunta sempre in momenti di crisi per rinsaldare l’opinione pubblica intorno al governante di turno. E in questo caso per avere i voti cattolici. Per la Santa Sede in generale la Cina è strategica perché vuole la fine delle persecuzioni dei cattolici e la riunificazione della Chiesa in due tronconi: da un lato i “patriottici” che accettano le nomina di vescovi compiute dal governo e la parte fedele al Vaticano che ha subìto le maggiori limitazioni. L’accordo tra Vaticano e Pechino di due anni fa mette termine a questo stato di cose e sancisce un’intesa sulle nomine dei vescovi. Accordo osteggiato da settori oltranzisti ecclesiali, tipo il cardinale Zen, arcivescovo emerito di Hong Kong, secondo cui non si dovrebbe deflettere dalla difesa dei diritti umani, spesso violati in Cina. E il segretario di stato americano Pompeo, alcune settimane fa, ha pubblicato un duro testo invitando il Vaticano a non rinnovare l’accordo in questione – è in scadenza la prima durata biennale – scordandosi appunto ogni cautela e dimenticando la “strategicità” di Pechino per il Vaticano.
Non hanno spiegato, a Pompeo e a Trump, e forse a tutto il Dipartimento di stato, che oltre ai motivi già detti, ce ne è un altro che riguarda Papa Francesco. Papa Francesco è gesuita e la Compagnia di Gesù ha una storia secolare e di grande spessore culturale e sociale, di evangelizzazione e difesa della fede tra le classi colte della Cina, da Matteo Ricci fino al 1948, quando Mao spazzò via le religioni (e non solo). Quindi il Papa non può e non vuole seguire gli Usa nei loro desiderata in questo settore: il dna dei gesuiti da sempre guarda a Oriente e l’uscita di Pompeo si è rivelata una improvvida presa di posizione. Così non solo non si è fatto ricevere dal Papa ma si è guadagnato una pubblica reprimenda da parte di mons. Gallagher, segretario per i Rapporti con gli stati, che lucidamente e candidamente ha detto: «Trump non strumentalizzi il Papa per la sua campagna elettorale». Pompeo aveva anche twittato: «Il Vaticano mette in pericolo la sua autorità morale, se dovesse rinnovare l’accordo». E il cardinale Parolin aveva chiarito: «Pompeo ha chiesto di incontrare» il Papa, che ha rifiutato perché «non riceve figure politiche in vista delle elezioni».
Ma è anche entrato nel merito dell’articolo che contiene l’attacco alla politica vaticana verso Pechino: il testo ha suscitato “sorpresa” in Vaticano, perché questa visita a Roma del segretario e gli incontri con alti funzionari presso la Santa Sede erano già stati in cantiere e sarebbero stati un forum “più opportuno” per rimostranze. Ha aggiunto che la scelta di pubblicare su First Things, una rivista cristiana conservatrice che ha definito Francesco un fallimento come Papa, ha avuto importanza. «Sappiamo che l’interpretazione non viene solo dal testo, ma anche dal contesto», ha detto. «Il luogo», ha aggiunto, «dice già qualcosa sull’intenzione di coloro che hanno scritto questo articolo».
Naturalmente c’è di più. L’articolo su First Things era importante – o doveva esserlo – solo in chiave interna statunitense. Era una maniera per rinforzare la polarizzazione all’interno della Chiesa, strizzando l’occhio a quei settori conservatori radunati intorno ad alcuni network multimediali e alla ricerca di tutti i modi per delegittimare il Papa. L’accusa è quella classica: Francesco è comunista – è a favore dei poveri! – e svende la teologia a causa delle sue posizioni che legano la Dottrina Sociale ai temi etici e ambientali. Dietro le accuse ci sono rilevantissimi interessi economici e finanziari: il Papa che difende l’ambiente, l’ecologia, i poveri, la sostenibilità ambientale, è una spina nel fianco per le politiche industriali senza scrupoli appoggiate da Trump e dai populisti soprattutto in Brasile e in Asia. La posta in gioco questa volta è molto alta: le armi sfoderate dagli epigoni dell’amministrazione Usa hanno visto un ampio schieramento trasversale che “acchiappa” i settori conservatori cattolici saldati tra loro in Usa, Spagna, anche in Italia e in Germania. D’altra parte la manovra di Pompeo è stata così palesemente scoperta che potrebbe rivelarsi un vero e proprio “boomerang” per l’amministrazione Usa.
Mons. Gallagher dal canto suo ha precisato che ogni ingerenza è indebita in quanto «quando si preparano le visite a così alti livelli si negozia l’agenda in privato, è una delle regole della diplomazia, i cancellieri parlano tra loro e poi si decide». E come ha scritto Avvenire qualche giorno fa, «se le parole non cambieranno l’attitudine vaticana», «può accadere invece che, paradossalmente, vadano a rafforzare l’intesa sino-vaticana». Infatti «oggi più che mai Pechino è disposta a maggiori concessioni con interlocutori criticati piuttosto che “benedetti” da Washington».
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