Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna e Accademico dei Lincei dal 2005, guarda con preoccupazione allo sviluppo delle crisi in Europa. «Non con angoscia, perché sono troppo in là con gli anni: per essere angosciati bisogna essere ancora giovani».

Siamo nel paradosso di una Italia stabile, nell’Europa instabile?
«Il quadro è di cambiamento. Anche in Italia, sottotraccia, ci sono dei cambiamenti importanti. Giorgia Meloni sta consolidando la sua leadership e gli altri due, Matteo Salvini e Antonio Tajani sono in chiara difficoltà. Si dimenano. Salvini in maniera più scomposta, un po’ meno Tajani. E in più lo schieramento molto ampio del centrosinistra è frammentato, alla ricerca di equilibri di vario genere. E dunque il quadro italiano è tutto fuorché stabile, con il governo che cercherà di rimanere in carica il più a lungo possibile. Fino alla scadenza naturale».

Meloni ha la strada in discesa?
«No. Incontrerà almeno due ostacoli e uno di questi lo ha già incontrato, l’autonomia differenziata. Così com’è non funziona, e non solo perché la Corte costituzionale ha imposto dei correttivi ma perché in molti si erano accorti che non poteva funzionare. E poi c’è il premierato. Una riforma che così com’è è impresentabile e probabilmente verrà bocciata, se non dal referendum anche prima».

Germania e Francia sono messe oggettivamente peggio.
«Per quanto riguarda loro, la crisi è più visibile in Germania che in Francia. Il sistema costituzionale francese consente a Macron di rimanere in carica per tutto l’arco del mandato, fino al 2027 e il parlamento francese, lo dico brutalmente, si arrangerà. Dovrà conformarsi al fatto che il Presidente ha ancora la facoltà di scioglierlo tra sette mesi. In Germania invece il problema deriva dal sistema dei partiti».

Sono diventati un po’ italiani anche loro?
«Beh, hanno tenuto benissimo finché erano tre. Adesso ce ne sono sette, in parlamento. Ed è diventato difficile formare coalizioni: è ancora possibile che dopo le prossime elezioni la Germania ricorrerà ad una nuova, ulteriore Grosse koalition con Cdu, Fdp e Spd».

In questo quadro, la sinistra europea – dopo lo shock di Trump – non vive il suo momento migliore. Anche la socialdemocrazia europea andrebbe ripensata.
«C’è sempre bisogno di un ripensamento. Però sarà bene ripensare anche ai grandi successi ottenuti dai partiti socialdemocratici e laburisti in Europa. Perché c’è un welfare state molto forte in tutti i paesi che sono stati governati dai socialdemocratici e c’è una certa inclinazione – qualche volta con non sufficiente capacità di orientare l’economia – a obiettivi generali comuni. Operazioni di welfare che si sono fatte più difficili adesso che c’è l’Ue, perché se fare del keynesismo in Europa è difficile, farlo nei singoli stati è stato relativamente più facile».

Dunque la sinistra riformista, guardando agli esempi europei, non è sul viale del declino…
«In Spagna e in Portogallo la sinistra è molto competitiva, ha vinto alla grande nel Regno Unito e sono anche al governo in Polonia e in altri paesi dell’Est europeo. Non darei per spacciata la sinistra e i socialisti, né come partiti né come ideali».

E da noi, perché la nostra sinistra – negli ultimi anni diventata meno riformista – non è competitiva? Il Pd alla ricerca di una identità “radicale” a cosa può portare?
«L’Italia è un caso clamoroso di insuccesso storico della sinistra, dovuto al fatto che i comunisti non vollero mai riflettere fino in fondo su quanto dicevano loro i partiti socialdemocratici, che li spronavano a superare certi paletti ideologici. I socialisti italiani furono sempre troppo deboli per proporre un modello socialdemocratico in modo significativo. E così siamo arrivati al Pd, che si è messo insieme in modo drammatico, unendo la cultura democristiana con quella comunista, marxista, gramsciana dell’ex Pci. Due culture che erano però già entrambe nella fase del declino, senza più un vero interprete. Oggi Elly Schlein dice che recupera l’identità radicale, vorrei capire cosa intende dire. Io di radicali conosco quelli di Pannella e Bonino. Spostarsi a sinistra? E cosa significa spostarsi a sinistra? Credo che quell’operazione vada ripensata in termini di cultura politica e temo, con grande amarezza, che Schlein non abbia la cultura politica per fare un partito nuovo».

Il populismo è in crisi, conosce la fine di un ciclo?
«Hanno perso. Hanno avuto la loro grande impennata con il M5S e con la Lega e poi, molto semplicemente, hanno perso. Hanno dimostrato di saper cogliere lo scontento, la rabbia, ma di non saperle tradurre in proposta. Sono movimenti di protesta che possono arrivare a punte elevate ma non sono capaci di governare».

Anche la formula del leaderismo peronista, si veda lo scontro Grillo-Conte, mostra i suoi limiti…
«Non esiste nessun governo in cui il leader rappresenta il popolo. Primo, perché il popolo non è mai un oggetto unificato e poi perché il leader non ha sufficienti capacità da solo: se non fa ricorso a formule intermedie, quel leader non sarà mai in grado di capire di cosa ha davvero bisogno il popolo».

Mario Draghi e la sua agenda ci parlano di futuro e di Europa. Senza una Europa politica unita non si va da nessuna parte: lei è d’accordo?
«Perfettamente d’accordo. Draghi ha la visione di un sistema politico stabile che per esserlo deve essere sovranazionale, europeo. Bisogna riuscire a creare rapporti di forza con gli Stati Uniti ma anche con la Cina. E non deve essere un puzzle, ma una vera e propria unificazione politica. Questo è un messaggio potentissimo, peraltro molto difficile da cogliere dalle attuali forze politiche europee».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.