Le decine di migliaia di bambini ucraini deportati in Russia e Bielorussia, e lì amorevolmente allocati in centri di rieducazione e famiglie che lavorano per infibularne l’identità e farne ottimi cittadini denazificati, non meritano troppo riguardo sulla scena dell’impegno civile curiosamente impegnato altrove. Da parte dei ranghi equidistanti e pacifisti impegnati a denunciare le brame imperialiste della Nato e a deplorare la tragedia dell’unica infanzia meritevole di attenzione, vale a dire quella sottoposta al giogo genocidiario dell’entità sionista, la considerazione di cui sono destinatari i piccoli rapiti dagli aggressori russi è quest’altra: nulla.

Quei figli dell’operazione speciale, sopravvissuti al proclama del generale russo sul dovere morale di bruciare i bambini del Paese invaso, sono affidati alle cure di chi, dopo averli strappati alle famiglie e alla terra di origine, ne corregge le insubordinazioni linguistiche e ne violenta la coscienza identitaria, sottoponendoli a un lavacro emotivo e psicologico che li prepara a una vita russificata. Il poco che si sa di quel che succede a questi bambini e adolescenti, vittime di una deportazione di massa senza precedenti nei settantacinque anni di pace, e a un tiro di schioppo da noi, dovrebbe essere più che abbastanza per molestare le sensibilità delle opinioni pubbliche e dei plenipotenziari occidentali che si dannano per il pericolo dell’escalation e per le bollette rincarate.

E invece non basta. Non bastano i racconti, sfuggiti alla censura e alla propaganda russa, sui viaggi di quei bambini verso la nuova patria che li inizializza con una bella coscienza di purezza slava sovrascritta su quella che altrimenti sarebbe stata corrotta dalle ambizioni nazi-europee. Non bastano i rapporti sui protocolli rieducativi dei ragazzi indottrinati a dimenticare il nome dei genitori e il ritmo delle canzoni nazionali ascoltate quando erano nella culla, tutti ricordi che è imperativo estirpare per il pericolo che maturino in sentimenti di scarsa fedeltà al sistema che così premurosamente ne accudisce la crescita. Non bastano le notizie sui metodi correttivi – isolamento, discriminazione, torture psicologiche – inflitti alla mente e al corpo dei giovani renitenti a quel dovere di assimilazione.

Tutti questi rimangono trascurati fatti che guardano la schiena dei Paesi e dei parlamenti girati dall’altra parte, incurvi sul conto dei consensi perduti a ogni giro di voto sull’invio delle armi mentre i padri di quei bambini allungano le file di croci nei cimiteri ucraini o aspettano di vedere, senza più munizioni, dove il nemico sfonderà le linee esauste della resistenza.
Il poco che si sa del presente e del destino di quei bambini è abbastanza, anzi è sin troppo, per giudicare il silenzio e l’assoluta assenza non si dice di mobilitazione, ma anche solo di compassione, di cui da ormai un paio d’anni offre prova il vasto mondo adunato “contro tutte le guerre” a in difesa di “tutte le vittime”.

E tutte le guerre naturalmente comprendono soltanto quelle ipotetiche di cui si racconta che ci sia rischio se si aiuta chi intanto ne subisce una vera, laddove tutte le vittime comprendono solamente quelle fatte dagli espansionismi atlantici e dagli oltranzismi ad essi asserviti. Con rigorosa esclusione di quelle che, come le migliaia di bambini ucraini, sommate alle migliaia di massacrati, non meritano di essere considerate e anzi, a ben guardare, debbono dopotutto essere messe sul conto della responsabilità di chi, per l’egoistica decisione di resistere all’aggressione (è noto che i bambini vivono felici anche in dittatura), ha preferito difendere con le armi la propria casa anziché aprirne le porte a quella soldataglia di predoni e stupratori.
Non c’è un telefono azzurro per i bambini ucraini. C’è un telefonino arcobaleno, e non risponde nessuno.