“Se le violenze non vengono testimoniate da un certificato medico e non sono di mano ma psicologiche, legali di stalking, non si riescono mai a comprovare. La prima costa che il giudice fa è archiviare, senza nemmeno indagare”. Emanuela Ammaturo, 34 anni, racconta con amarezza l’incubo in cui è precipitata. Ha due bambine di 6 anni e 3 anni. Circa 3 anni fa il rapporto con il suo ex si è bruscamente interrotto. Da quel momento è iniziato uno stillicidio fatto di stalking e battaglie legali senza fine che coinvolgono le bambine e che non fanno altro che turbare la serenità.

“Ci sono miriadi di denunce che ho depositato contro il mio ex, ho coinvolto anche il centro anti-violenza sulle donne per dimostrare queste violenze ma niente, il giudice non mi ha ascoltato e ha archiviato senza nemmeno richiedere un tabulato telefonico – continua il racconto Emanuela – Devo per forza vivere nel terrore che la situazione possa sfuggire di mano. Perdendo la lucidità si può finire in situazioni molto più sgradevoli e sinceramente non lo voglio permettere, a 34 anni ho da crescere due bambine”.

La vita per Emanuela non è facile. “All’inizio il mio ex non volle nemmeno riconoscere la seconda bambina che abbiamo avuto tanto che ancora porta il mio cognome. Ci è voluto un anno e mezzo per fargliela riconoscere – continua Emanuela – Mi sono ritrovata da sola con tutte queste problematiche in preda a continue minacce psicologiche. Credetemi non è semplice andare avanti con una battaglia legale da intraprendere ogni 6 mesi, senza una rete sociale intorno, con assistenti sociali che si affacciano per un pochino nella vita guardando una casa e piccoli scorci di vita ma senza avere una idea di cosa succede realmente”.

Emanuela racconta di ricevere telefonate continue anche di notte da parte dell’ex, che la accusa di alienazione parentale, di mettergli contro le figlie. Ma Emanuela crede negli strumenti della giustizia e di quello che il giudice ha stabilito, l’affidamento condiviso per le due figlie. Racconta di mettersi continuamente a disposizione per favorire gli incontri tra le bambine e il loro papà. “Nonostante tutto mi ritrovo a fare denunce per il mancato mantenimento di un anno e mezzo, per persecuzioni telefoniche, appostamenti sotto casa alle 4 di notte e puntualmente queste denunce vengono sempre archiviate. Per la legge italiana l’archiviazione è all’ordine del giorno, senza approfondire. Tutte le donne dovrebbero avere tutele perché le violenze psicologiche e legali fanno più male di quelle fisiche ed è il momento di dire basta ma il mio grido non viene accolto”.

E tutto ciò ricade inevitabilmente anche sulle bambine che soffrono per questo malessere diffuso in famiglia. Emanuela ha fatto di tutto per loro, soprattutto per aiutare Lucia ad avere una sua autonomia di vita nonostante la sua disabilità. Ha imparato il braille, ha fatto corsi e ha portato avanti una lotta per far avere un ingranditore e un banco ergonomico a scuola. “Eppure ho dovuto chiudere il negozio che mi hanno lasciato in eredità i miei genitori, frutto di sacrifici miei e della mia famiglia perché il giudice e gli assistenti sociali hanno detto che non ero una buona madre se lavoravo in negozio tutto il giorno. Domani mattina mi ritrovo nuovamente davanti a un giudice a spiegare perché ho prelevato i soldi della pensione di accompagnamento di mia figlia che si è dovuta sottoporre a due interventi chirurgici in due mesi a Roma inseguendo la speranza che non perdesse anche il suo ultimo residuo visivo”.

Emanuela si sente sola e abbandonata anche da una rete sociale che in altre occasioni ha dimostrato di funzionare come quando la scuola, le associazioni e il comune hanno fatto avere il banco e la lente di ingrandimento a Lucia. “La storia della mia assistita non è un unicum in Italia. Sono tantissime le donne nella sua stessa situazione – spiega Umberto Rigillo, avvocato civilista e difensore di Emanuela – Non dovrebbe essere così perché la legge c’è, gli strumenti il legislatore li ha predisposti, ma non sempre sono in grado di dare una risposta concreta al cittadino”.

L’avvocato contesta anche l’assenza di supporti sociali per i genitori che si separano. “Spesso alla base di tutto c’è una fragilità nella genitorialità – continua – il loro ruolo dovrebbe essere rafforzato. E in questo caso le istituzioni mancano completamente. Anche i Tribunali dovrebbero dare man forte a questi genitori fragili e invece non succede. Si crea tutto un circuito lungo e complesso di cause su cause e così il cittadino si sfiducia completamente nei confronti della giustizia”.

È il sistema giudiziario dunque a rendere possibile che Emanuela si ritrovi con denunce archiviate. “L’ex della signora riesce a farla franca anche sulla questione del versamento degli alimenti, corrispondendone saltuariamente alcune somme – spiega Danilo Volpe, avvocato penalista che sostiene Emanuela nella sua battaglia – E in tutto questo la lungaggine procedimentale scoraggia e sfiducia il cittadino. Ogni volta che si finisce in tribunale c’è un costo emotivo da parte delle parti non indifferenti e la risposta del giudice spesso tarda ad arrivare”.

In tutte queste lunghe attese di giudizio chi finisce in tribunale si sente isolato e in balia di una condotta che va a inficiare l’armonia familiare. “Succede che il genitore si trovi privo di fonti di reddito ma costretto alla gestione ordinaria e straordinaria dei figli – continua l’avvocato Volpe – A volte hanno paura di ritorsioni e violenze e persino noi avvocati abbiamo difficoltà a provare le condotte di violenza ai danni dei nostri assistiti sotto il profilo psicologico. C’è molta diffidenza da parte delle procure su quelle che sono le malattie dell’animo provocate da frequenti vessazioni psicologiche che non sfociano necessariamente in violenze fisiche. Sarebbe per questo motivo auspicabile l’avvio di una rete sociale di associazioni e servizi che diano supporto alle vittime di questo genere di violenza. Abbiamo vissuto casi in cui le conseguenze di queste violenze psicologiche hanno portato ad esiti infausti. Tutto ciò non deve più succedere”.

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Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.