«Quel titolo de Il Riformista racconta una verità. A Madrid, nel vertice Nato, i curdi sono stati traditi e consegnati al loro carnefice: Erdogan». A sostenerlo è Riccardo Noury, storico portavoce di Amnesty International Italia.

“La Nato si è venduta a Erdogan gli eroi di Kobane”. Così titolava questo giornale in merito alle decisioni assunte nel recente vertice Nato a Madrid. Lei che ne pensa?
La penso esattamente come titola Il Riformista. La premessa generale è che questa guerra sta scompaginando tutto. Da un lato mettendoci sotto ricatto di nuovi fornitori di gas e petrolio, dato che dobbiamo diversificare le fonti. Non finanziando, giustamente, la guerra della Russia, rischiamo però di finanziare repressioni, vecchie e nuove, come nei casi dell’Algeria, dell’Egitto e degli Stati del Golfo. Il secondo sconvolgimento è che aumenta il potere di Stati noti per violare i diritti umani, di fronte ai quali si è costretti ad essere ancora più accondiscendenti. L’elemento politico che l’allargamento della Nato si fa a spese dei diritti di una popolazione, mi pare evidente. Ma questo non è solo un dato politico. È un dato che ha a che fare profondamente con i diritti umani. Perché prefigura che Stati molto generosi dal punto di vista dell’asilo cambieranno attitudine e prefigura anche che quella mano libera lasciata alla Turchia nel nord della Siria già dal 2019 continuerà ad essere libera e porterà a termine l’obiettivo, cioè di ripulire la zona di confine tra Turchia e Siria da ogni presenza curda.

Tutto questo con l’avallo di una Europa che continua a sottostare al ricatto turco rispetto all’esternalizzazione delle frontiere…
Questo è iniziato nel marzo 2016, con l’accordo tra Unione europea e Turchia. Lì, 6 anni fa, è passato il principio che basta pagare lautamente un soggetto delegandogli il compito di tenere sotto controllo le frontiere dell’Unione europea perché il problema sia risolto. Quell’accordo Ue-Turchia ha poi avuto uno sviluppo che conosciamo bene…

A cosa si riferisce?
Al Memorandum d’intesa tra Italia e Libia dell’anno successivo, il 2017. Ma per tornare alla Turchia, 6 anni fa Erdogan ha preso il coltello che gli era stato dato dall’Unione europea, dalla parte del manico, e ora lo usa per il suo obiettivo, che è sempre il solito: risolvere quello che avverte come un enorme problema di sicurezza, vale a dire la presenza curda all’interno del paese e nelle zone di confine. E da oggi può farlo ancora più impunemente.

Cosa fa davvero paura dell’esperienza curda, come quella, ad esempio, che si era tentata nel Rojava?
I curdi hanno un proverbio: i nostri unici amici sono le montagne. Mai è vero come in questa occasione. Sono stati utilizzati nell’ultimo secolo più volte, in alcuni casi anche ingenuamente hanno fatto affidamento su promesse. Penso, solo per fare un esempio, alle promesse fatte agli inizi degli anni ’90, quando alla fine della prima guerra contro l’Iraq si disse che i curdi potevano stare tranquilli. E poi Saddam Hussein rimase al potere e fece un massacro dei curdi, che nel frattempo erano insorti con la benedizione degli Stati Uniti. Quello che è successo in Siria lo conosciamo bene perché è storia recente. Abbiamo chiesto ai curdi di liberarci dallo Stato Islamico, li abbiamo ringraziati e poi traditi.

La tragedia curda non fa più notizia, per non parlare di quella palestinese o yemenita. E non fanno nemmeno più notizia le stragi di innocenti che si continuano a consumare nel Mediterraneo. Per non parlare della Libia e dei lager di migranti che continuano a funzionare senza soluzione di continuità.
È un tipico difetto delle leadership internazionali quello d’intervenire, spesso male, su una determinata crisi, su quella e basta. Oggi è il turno dell’Ucraina che ha fatto dimenticare l’Afghanistan. L’arrivo dei talebani a Kabul il 15 agosto scorso ha fatto dimenticare il Myanmar e costantemente vengono dimenticate tante altre vicende, come le guerre africane che poi producono quei flussi che arrivano in Libia e che trovano quel destino che sappiamo. Questo è un problema. Enorme. Questo atteggiamento miope delle leadership internazionali a cascata fa sì che i media mainstreaming seguano quella crisi, l’opinione pubblica s’informi e si attivi su quella crisi e tutto il resto passa inosservato.

Questi media mainsreaming di cui lei parla, non sono anche veicolo e al tempo stesso espressione di un pervasivo pensiero unico?
Io parlerei di un pensiero politico dominante. E cioè quello che dobbiamo fare i nostri stretti interessi. Si è detto , lo hanno fatto e ripetuto le istituzioni italiane, che in Libia dobbiamo stare con un piede dentro, perché se togliamo quel piede che abbiamo messo dentro lasciamo la Libia nelle mani di Russia, Francia e Turchia. Mettere un piede dentro ha significato essere complici in crimini di diritto internazionale nei confronti di migranti e di richiedenti lo status di rifugiati. L’indulgenza che è totale nei confronti d’Israele fa sì che delle sorti e delle violazioni dei diritti umani dei palestinesi non si sappia nulla. Si utilizzano termini quali “conflitti” e “scontri”, quando tutto quello che accade lì è conseguenza di quello che Amnesty International ha chiamato, documentandolo in numerosi rapporti, un sistema di apartheid d’Israele nei confronti dei palestinesi. E quando ci serve la Turchia, ecco dimenticati i curdi. Direi che c’è un pensiero politico unico di tipo opportunista. Molto opportunista, cinico, miope, basato essenzialmente, se non totalmente, sulle necessità di una parte del modo che è quella dove siamo noi.

Per restare sulla Libia. In una nostra conversazione di un anno fa, lei definì la Guardia costiera libica “una creatura diabolica costruita dall’Italia. Un anno dopo è dello stesso avviso?
Assolutamente sì. Nel frattempo abbiamo avuto i dati riguardanti il 2021 che portano il totale delle persone intercettate in mare da quella creatura malefica e riportate esattamente in quei luoghi infernali da cui erano fuggite, a oltre 70mila. In questo arco di tempo sono andate avanti inchieste giornalistiche e anche indagini giudiziarie su crimini attribuiti a quella sedicente Guardia costiera. Il giudizio mi pare più che attuale, purtroppo.

Sono passati oltre undici anni, da quella guerra che portò all’abbattimento del regime di Muammar Gheddafi e all’eliminazione fisica del Colonnello. A distanza di oltre un decennio, come definirebbe la Libia di oggi?
Un luogo di assenza dello stato di diritto, dei concetti basici di istituzioni statali, Non credo che per dire cosa sia diventata la Libia, vi sia una definizione migliore di quella di Francesca Mannocchi: “In Libia per avere il potere occorre avere le armi. E per avere le armi occorre avere il denaro. E per avere il denaro, occorre avere i migranti”. E noi siamo il soggetto un po’ erogatore di tutto questo.

Un tempo c’era quello che si definiva “internazionalismo”, il sostegno a popoli in lotta per la liberazione dal giogo coloniale, da sanguinari regimi militari e così via. Oggi cosa è rimasto?
Qualcosa è rimasto. Perché la simpatia che ha prodotto l’esperienza del Rojava vuol dire che in una piccola parte dell’opinione pubblica la solidarietà continua ad esserci. Ma tutto sommato è poco rispetto alla realtà. La realtà che è quella di utilizzare popolazioni quando servono e poi prendere uno scacciamosche per respingerle lontano. D’internazionalismo sul piano istituzionale, ne vedo ben poco, direi assolutamente nulla. Possiamo prendere qualsiasi parametro e la conclusione è sempre la stessa. Non c’è stato internazionalismo nella difesa di popoli oppressi. Non c’è stato internazionalismo nel garantire vaccini per tutte e per tutti, e scardinare questo meccanismo dei brevetti, l’unione tra Stati ricchi e aziende farmaceutiche. A pagare sono sempre gli stessi: i popoli del sud del mondo.

Tornando al vertice Nato di Madrid: rispetto a quello che si è deciso non solo sui curdi ma anche sugli armamenti, la distinzione conservatori/progressisti scompare.
Quando sono in gioco i diritti fondamentali, di queste distinzioni non ne vediamo poi molte. Ricordiamoci nel nostro piccolo che quella nefasta stagione che va avanti ancora adesso di collaborazione, da un lato, con le autorità libiche in materia di immigrazione e dall’altro di criminalizzazione della solidarietà, ha un nome e un cognome: quello dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti. Non è ascrivibile a Salvini, per essere chiari. In generale, rispetto a quest’ultima fase, mi sembra che, quando affermavo all’inizio che la guerra sta scompaginando tutto, tale scompaginamento ha prodotto anche questo risultato, cioè rischiare di far cambiare attitudine a quegli Stati generosi nei confronti dell’immigrazione, di dare ancora più peso a un leader autoritario come Erdogan e far dimenticare tutto il resto. Mi lasci aggiungere che la battaglia non è finita a Madrid. Se Erdogan ha una lista di persone di cui vuole ottenere l’estradizione da Svezia e Finlandia, qui si lede un principio fondamentale del diritto internazionale, cioè il principio del non rimpatrio, che prevede che nessuno possa essere espulso, rimpatriato, respinto verso il luogo di origine se lì rischia di subire violazioni dei diritti umani. Al di là del caso specifico, chi è la persona, se è un dissidente, se ha partecipato alla lotta armata, chiunque sia, quel principio si applica a tutti. Io mi auguro che abbia inizio una stagione di lotte, di attivismo e anche di contenzioso giudiziario. Le avvocate e gli avvocati per i diritti umani e le organizzazioni per i diritti umani in Svezia e Finlandia utilizzino l’arma del ricorso alla giustizia per impedire che ci sia quell’esito che Erdogan vuole e che al vertice di Madrid è stato accettato, cioè farsi rimandare in casa persone considerate nemiche.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.