Sarà Robert Fico il cigno nero? L’attentato al premier slovacco ha suscitato reazioni forti. C’è chi ha evocato l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria per mano del giovane Gavrilo Princip. E cioè quella che viene considerata la miccia della prima guerra mondiale. La violenza politica fa paura, fosse pure nella periferica Bratislava. Coglie sentimenti di insicurezza che hanno radici comprensibili nell’Occidente delle nuove guerre e che sono enfatizzati dalla comunicazione dei media ufficiali e dall’anarchia dei social. Commenti e profezie si intrecciano, e sempre minacciosamente. Antonio Polito ha rivangato la tradizione americana del regicidio, da Lincoln a Kennedy.

David Carretta, riflettendo sui numerosi casi di aggressioni politiche che si sono verificati negli ultimi anni in Francia, Germania, Olanda, ha messo in guardia da un ritorno all’Europa degli anni Trenta. Ma la storia, come sempre, è fonte di ambiguità. Non si ripete mai. Cambiano i contesti, cambia il significato dei fenomeni. L’Europa degli anni Venti e Trenta fu una stagione di “brutalizzazione della politica”, come ha scritto George Mosse. E tuttavia il motore che finì per mandare in soffitta l’attaccamento alla pace, il patriottismo difensivo, il riconoscimento delle regole della guerra fu, per un verso, la rivoluzione bolscevica e, per altro, il crollo degli imperi continentali nel 1914-18. L’Ottobre sovietico diventò l’incubo dell’Occidente liberale e aprì il confronto – epocale quanto sanguinoso – tra rivoluzione e controrivoluzione. Contemporaneamente, la scomparsa delle dinastie di Berlino e Vienna e poi del sultanato di Costantinopoli creò nell’Europa centro-orientale e meridionale un grande vuoto politico e istituzionale.

Anche un paese di robusta tradizione statuale come la Germania non seppe tenere a freno quanti non accettavano la sconfitta e intendevano vendicare l’onore umiliato della nazione. A Berlino, ad Amburgo, in Baviera scoppiarono insurrezioni comuniste che vennero soffocate nel sangue da corpi volontari irregolari, oltre che dalle polizie e dall’esercito. Altri incendi scoppiarono in Ungheria e in Italia, in Ucraina e nel Caucaso, in Anatolia e nei Baltici. Erano, volta a volta, conflitti politici, etnici, sociali, religiosi. E finirono per lacerare in modo violento l’unità interna delle nazioni. Gli eventi della politica diventarono cruenti, confronti a mano armata, insurrezioni, terrorismo, pogrom. Si moltiplicarono le aggressioni fisiche e gli omicidi. Cadde, fra i tanti, Walther Rathenau, il ministro degli Esteri di Weimar. Erano guerre civili. Era, anzi, la “guerra civile europea”, per riprendere il giudizio di Ernst Jünger, di Hannah Arendt, di Ernst Nolte, quella che sarebbe finita soltanto con l’olocausto del 1939-45.

La politica aveva spinto gli individui a schierarsi da una parte contro l’altra, a fare una scelta di campo estrema e senza riserve che permetteva di sentirsi dentro il fiume della storia. Una concezione giacobina della politica. La guerra civile era – come sempre – senza regole, creava passioni e paura, odio e insicurezza. Un investimento emotivo che trasformava l’avversario in nemico assoluto, “nemico dello stato, del popolo e dell’umanità”, scrisse Carl Schmitt. E che perciò andava annientato. I vinti non erano soltanto sconfitti, cessavano di esistere. Ciascuno può giudicare somiglianze e dissonanze tra quella stagione e il tempo presente, il tempo di Robert Fico. Ma di certo appaiono più dissonanti che somiglianti quei fenomeni che diedero forma agli anni della violenza politica.

L’Europa del primo dopoguerra aveva bandiere incrollabili, la rivoluzione e la controrivoluzione. Aveva Stati e partiti che imposero quelle bandiere con la passione e con il ferro, affascinando i popoli o costringendoli a servirle. Aveva popolazioni, gruppi sociali, appartenenze etniche, fedi religiose che, emergendo dal crollo degli imperi continentali, poterono esprimersi all’ombra della grande guerra civile tra i due campi. E lo fecero spesso con ferocia. L’Europa attuale vive invece la crisi della democrazia liberale, vessillo assai più solido nei valori e nelle conquiste materiali, ma paradossalmente assai più fragile di fronte alle sfide dei regimi autoritari, perché soggetto alle proprie opinioni pubbliche, al suffragio degli elettori, al progressivo indebolirsi degli istituti della rappresentanza. A partire dai partiti politici.

Al tempo stesso, l’Occidente del Terzo millennio, il nostro Occidente, deve vedersela con altre spinte universalistiche. Non più il comunismo sovietico, ma il neoimperialismo di Putin, l’islamismo sciita, la geopolitica indo-pacifica di Xi. Ed è fin troppo evidente come la crisi delle democrazie liberali le renda vulnerabili a quelle spinte, permeabili a tensioni solo apparentemente contraddittorie, al pacifismo, all’antioccidentalismo, al revanchismo nazionalista, al populismo illiberale di destra e di sinistra. Dopotutto nella traiettoria politica di Fico c’è tutto questo.