Lo scandalo che ha colpito il Parlamento europeo, con l’arresto in flagranza di reato della sua vicepresidente socialista Eva Kaili, pone – tra gli altri – il problema della perseguibilità in sede giudiziaria delle opinioni da questa espresse in difesa del Qatar dalle accuse di violazione dei diritti fondamentali della persona, specie dei lavoratori che sono stati impegnati nella costruzione degli stadi.

In altri termini, può un giudice incriminare la deputata europea sulla base dell’ipotesi di accusa che le parole da lei espresse siano frutto di corruzione? Oppure quelle opinioni da lei espresse sono coperte dalla prerogativa parlamentare della insindacabilità, in base a cui ogni parlamentare non può essere chiamato a rispondere in nessuna sede, penale inclusa, delle opinioni espresse nell’esercizio delle sue funzioni, cosicché sia sempre tutelata la sua libertà di parola e, con essa, l’autonomia del Parlamento cui appartiene da indebite interferenze giudiziarie?

Si tratta di una questione, com’è evidente, che induce a riflettere, sotto un punto di vista del tutto particolare, sul tema della rappresentanza politica del parlamentare e del suo rapporto con la rappresentanza di interessi. Questione peraltro non nuova, se è vero che già il 31 gennaio 1893 la Camera dei deputati concesse l’autorizzazione a procedere contro il deputato De Zerbi, imputato di peculato, corruzione millantato credito per avere ricevuto somme offerte in cambio della sua interferenza nell’iter di approvazione di un disegno di legge che ad una banca interessava vedere approvato. Il tema si è riproposto nelle Camere repubblicane, dove si è registrato nel tempo un significativo mutamento d’indirizzo.

Inizialmente, infatti, la Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera, chiamata a pronunciarsi sull’accettazione di una promessa di denaro per presentare e sostenere due disegni di legge da parte di un deputato per questo accusato di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, ritenne che l’attività parlamentare fosse sempre oggettivamente insindacabile, a prescindere dagli intenti soggettivi, e coprisse anche quella antecedente rispetto ad essa inscindibilmente collegata e strumentale. Se così non fosse, concluse allora la Giunta, il giudice potrebbe sindacare l’attività politica del parlamentare, e precisamente il processo di formazione della sua volontà, vanificando in tal modo la prerogativa dell’insindacabilità nelle sue motivazioni. In questo modo, quindi, si volle evitare un controllo esterno sulla volontà del deputato, a costo però di rendere possibile il mercimonio dell’attività parlamentare.

Per evitare però tale indesiderato epilogo, l’indirizzo della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera mutò in seguito radicalmente. Nel 1972 la Giunta ritenne che la prerogativa della insindacabilità non poteva essere sempre e comunque astrattamente e intrinsecamente data per scontata; piuttosto occorreva verificarla nei fatti, onde escludere che essa potesse estendersi all’accettazione di denaro o di altri beni materiali o alla loro relativa promessa in grado di interferire e/o condizionare il compimento di un atto tipicamente parlamentare. La stessa Corte costituzionale, nella sua sentenza n. 81/1975 del 27 marzo, ha collegato la irresponsabilità dei parlamentari al “fine di rendere pienamente libere le discussioni che si svolgono nelle Camere, per il soddisfacimento del superiore interesse pubblico connessovi”. È in vista di questo fine che “siffatte eccezionali deroghe all’attuazione della funzione giurisdizionale, considerate necessarie a salvaguardia dell’esercizio delle funzioni sovrane spettanti al Parlamento, risultano legittime in quanto sancite dalla Costituzione”.

La prerogativa dell’insindacabilità è dunque funzionalmente connessa alla rappresentanza “nazionale” del singolo parlamentare, chiamato ad esercitare le sue funzioni “senza vincolo di mandato”. Pertanto essa non può coprire quanto non strumentalmente funzionale al corretto esercizio del mandato parlamentare ed al corretto funzionamento dell’istituzione parlamentare nel suo complesso. Ciò giustifica quindi l’applicazione anche al parlamentare del reato di “corruzione per l’esercizio della funzione”, previsto dall’art. 318 c.p., come riformato dalla legge n. 190/2012 (c.d. Severino), che punisce con la reclusione da tre a otto anni “il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa”. Tale reato fu applicato nei confronti dell’ex deputato dell’Udc Luca Volonté, accusato di aver ricevuto da politici azeri una tangente di 2 milioni e 390 mila euro per orientare il proprio voto come membro dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.

In quell’occasione, infatti, la Cassazione (sentenza n. 36769/2017) accolse il ricorso del pubblico ministero contro la decisione del giudice per l’udienza preliminare di non procedere nei confronti del suddetto deputato perché riteneva insindacabili le sue attività. Per la Cassazione, infatti, la garanzia della insindacabilità a tutela dell’autodeterminazione del singolo parlamentare ne copre gli atti purché connessi alla funzione parlamentare. Altrimenti prevale la “grande regola” dello stato di diritto e la parola deve passare alla giurisdizione. L’utilità percepita, infatti, va qualificata “indebita” quando l’attività parlamentare, che per sua natura tende alla costante composizione di interessi di parte, viene condizionata da interessi estranei alla sua natura politica.

Per questo, nell’ambito dell’attività politico-parlamentare “non può ritenersi rientrare la ricezione di utilità, anche estremamente rilevante, come ad esempio cospicue somme di denaro a titolo personale”. In conclusione, quanto dalle ipotesi di reato si presume sia accaduto nel Parlamento europeo ci richiama ancora una volta in modo esigente alla nobiltà della funzione parlamentare, marcando il confine oltre cui si è fuori dai compiti di rappresentanza e anche di “compromesso” politico e si entra nella logica di uno sfruttamento privato dell’altissimo ufficio ricoperto.