Si è conclusa mercoledì – con il fioco clamore mediatico che in questo sfortunato Paese viene tributato alle assoluzioni degli ingiustamente accusati – la vicenda di un ufficiale di alto rango dell’Arma dei Carabinieri. Il nome poco importa – lo ha fatto ieri Il Riformista – e anche il suo processo sarebbe da considerare di scarso rilievo. Una falsa testimonianza in un processo di ‘ndrangheta. Non una corruzione o una collusione mafiosa, né un depistaggio o peggio ancora un pestaggio.

Nulla di particolarmente grave nella colonna infame dei reati che di tanto in tanto vengono contestati a fedeli servitori dello Stato e per i quali, a distanza di tempo, fioccano inevitabili archiviazioni o assoluzioni. La Cassazione ieri ha respinto il ricorso che la procura d’appello aveva proposto contro l’assoluzione che era stata pronunciata dai giudici di secondo grado, cancellando una prima condanna. Ancora una volta nulla di particolarmente grave, sono cose a cui la gente è abituata purtroppo, e quando capita che il velo dell’omertà mediatica sia squarciato e la notizia si spanda in mille rivoli minori, non sono pochi quelli che pensano che un colpevole l’abbia passata liscia e che debba ringraziare il cielo di aver scampato le manette, piuttosto che lamentarsi della lapidazione investigativa.

È un problema di civiltà. Una nazione abbrutita da fughe di notizie, da arresti presentati come condanne, da conferenze stampa percepite come verdetti inappellabili, ha completamente smarrito quali sia il rigore anche etico imposto dalla presunzione di innocenza e non esercita più alcun controllo sulle notizie che provengono dagli apparati della repressione penale i quali, da anni, agiscono in perfetta simbiosi con ben collaudati e servizievoli consorzi mediatici. Ma ancora una volta nulla di particolarmente grave. Sono cose note da tempo. Per quale motivo strapparsi le vesti questa volta, cosa ci potrebbe essere di diverso da altri casi, finiti in silenzio e sopiti nell’indifferenza di tutti. Qualche tempo or sono – in tempi di leggi ad personam sfacciatamente presentate come tali (anche oggi, invero, i casi non mancano, ma tutto è più felpato e consociato) – si era pensato di inibire al pubblico ministero la possibilità di proporre appello contro le sentenze di assoluzione. La tesi dell’one shot. Il processo penale si svolge nel pieno contraddittorio, l’accusa porta le proprie prove e se il giudice le ritiene inadeguate o insufficienti l’imputato deve essere lasciato in pace.

Regola semplice, forse anche ragionevole, che tuttavia è incespicata nei rilievi censori della Corte costituzionale e per ragioni che – all’epoca e tenuto conto del contesto politico della riforma – potrebbero anche comprendersi. Questo non avrebbe impedito al legislatore di por mano alla questione per altra via, imponendo a esempio rigorosi filtri gerarchici per l’impugnazione del pubblico ministero e, soprattutto, monitorando l’esito dei processi ai fini della ricostruzione delle carriere, di quelle carriere che sono esibite nei tornei correntizi come folgoranti e per le quali nessuno sa effettivamente come una retata di manette si sia conclusa o come un’indagine eccellente abbia avuto il proprio epilogo. I curricula (che la riforma Bonafede vorrebbe rendere ostensibili e pubblici) tacciono su questo profilo, certo non marginale della questione, e sono pieni piuttosto di numeri riguardanti indagini – anzi (come le si chiama ora con linguaggio inappropriato per un magistrato anche se dell’accusa) “operazioni” – e mai di riferimenti alla loro conclusione e ai verdetti definitivi.

Non che questo snodo cruciale della vicenda fosse sfuggito all’attenzione delle menti più raffinate del Parlamento italiano e che non si fosse prevista una norma in proposito. Ma il 18 dicembre 2004, il presidente Ciampi rinviò alle Camere, rifiutandone la promulgazione, il testo della legge di delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario, definitivamente approvata dalla Camera il 1 dicembre 2004, e svolse svariati rilievi, uno dei quali concernente proprio questo monitoraggio dell’esito dei procedimenti. Rilevò la Presidenza della Repubblica che la prevista «istituzione presso ogni direzione generale regionale o interregionale dell’organizzazione giudiziaria dell’ufficio per il monitoraggio dell’esito dei procedimenti, in tutte le fasi o gradi del giudizio, al fine di verificare l’eventuale sussistenza di rilevanti livelli di infondatezza giudiziariamente accertata della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale o con mezzi di impugnazione ovvero di annullamento di sentenze per carenze o distorsioni della motivazione, ovvero di altre situazioni inequivocabilmente rivelatrici di carenze professionali» fosse in palese contrasto con gli articoli 101, 104 e 110 della Costituzione.

E ancora «il monitoraggio dell’esito dei procedimenti – fase per fase, grado per grado – affidato a strutture del Ministero della giustizia, esula dalla ‘’organizzazione” e dal ‘’funzionamento dei servizi relativi alla giustizia’’, che costituiscono il contenuto e il limite costituzionale delle competenze del Ministro». Quindi, il nocciolo della questione: «inoltre, da questa forma di monitoraggio, avente ad oggetto il contenuto dei provvedimenti giudiziari, deriva un grave condizionamento dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni; in particolare, il riferimento alla possibilità di verificare livelli di infondatezza ‘’della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale” integra una ulteriore violazione del citato articolo 112 della Costituzione».

Un punto invalicabile che, con grande onestà intellettuale, il messaggio di Ciampi enunciava senza alcun infingimento e dietro il quale si scorgeva anche il peso delle preoccupazioni provenienti dalla corporazione. Aleggiava il pericolo che il controllo sull’esito dei processi, operato dal Ministro della giustizia, potesse condizionare l’esercizio della giurisdizione. Non si può negare che sia vero. Il problema è, però, comprendere se esista un punto di equilibrio tra l’assenza di efficaci controlli (il Csm è, almeno formalmente, in grado di poter verificare questo aspetto quando cura la valutazione dei singoli magistrati) per lasciare tranquillo e sereno il manovratore giudiziario, e l’esigenza dei cittadini e dello Stato di prevenire il ripetersi di errori seriali da parte della stessa toga, se non dello stesso cluster di toghe non poche volte avvinte dalle medesime indagini e messe a guardia degli stessi imputati.

Si badi bene, non si tratta di discutere né dei fondi per l’ingiusta detenzione da manette facili (sono i casi più gravi, ovviamente) né degli indennizzi per la irragionevole durata del processo (messi in bilancio 2020 per 180 milioni di euro), ma della necessità di scovare quelli che, in sanità, vengono definiti gli «eventi avversi» ossia i casi in cui la macchina sistematicamente si inceppa e nessuno riesce a porvi rimedio in modo celere e definitivo. Così consentire al pubblico ministero, che ha visto miseramente naufragare la propria ipotesi investigativa. di rimandare l’imputato assolto innanzi alla corte d’appello e, se ben ammanicato, anche al cospetto della Cassazione, è un danno che il sistema non può sopportare. L’obiezione è nota: le impugnazioni dei pm contro le assoluzioni sono infrequenti e non sono quelle a intasare le aule dei gradi superiori. Ma la risposta è parimenti chiara: l’impugnazione non può essere il sistema per impedire all’imputato, già proclamato innocente, di uscire per sempre dal processo e, soprattutto, per impedire un redde rationem sulle indagini.

“Causa che pende, causa che rende” proclamavano un tempo i vecchi avvocati; ma parlavano d’altro. Quando è in gioco la libertà e la dignità delle persona ogni causa che pende è una causa che rende un pessimo servizio allo Stato e alla collettività, oltre che al singolo. La riforma dell’ordinamento giudiziario voluta dal Ministro della giustizia dovrebbe fare un passo in avanti e tentare – nel percorso tracciato dal presidente Ciampi- di costruire una costante verifica sui processi per confrontarne l’esito con le indagini. Una, due, dieci, trenta assoluzioni sono fisiologiche, un nugolo non lo è più: mettere insieme ottimi e scadenti pubblici ministeri non è una buona idea, soprattutto quando sono i secondi i più assetati di notorietà e di carriera.