Non c’è giorno che la magistratura corporata non dia prova della propria impostazione antidemocratica. Ferma sulla linea di una buona fede forsennata, non diversa rispetto a quella dell’inquisitore che ti brucia per il tuo bene, essa crede davvero che la propria funzione sia di costituirsi in una centrale di indirizzo che pone rimedio ai mali della società e combatte gli agenti dei poteri diversi che la imprigionano nell’ingiustizia. I rappresentanti di questa cultura ispirano la propria vocazione al totem costituzionale, ma in realtà non sono soggetti alla legge suprema e piuttosto rivendicano di esserne gli esecutori esclusivi nell’esercizio di una “indipendenza” pervertita nella contestazione aperta del sistema politico rappresentativo. Come si ripete, è spesso (non sempre) un approccio in buona fede a comandare questi proponimenti di governo della società per tramite giudiziario, ma questo non ne attenua la pericolosità e anzi la aggrava perché essi si accreditano sull’idea diffusa che i “pieni poteri”, inquietanti quando a reclamarli è un politico discusso, rappresentano una provvidenza se ad assumerli è la milizia eroica della magistratura incorrotta.

Ieri (ma come sempre) questa cultura spadroneggiava sul giornale senza padroni, cioè Il Fatto Quotidiano, con un articolo questa volta non sgrammaticato a firma del solito Gian Carlo Caselli il quale, dopo aver fatto l’elogio delle correnti che garantiscono vitalità alla pozzanghera giudiziaria («furono utili», spiega, «per incrinare l’estraneità dei giudici rispetto alla società e per cercare di introdurre in un corpo burocratico il rifiuto del conformismo”»), ripropone appunto l’idea che la magistratura adempie al suo ufficio se diventa «strumento di emancipazione dei cittadini» e quando assume «la funzione, anch’essa inedita, di controllo dell’esercizio del poteri forti». Con eloquio appena aggiornato, l’orientamento della giurisdizione verso la conquista rivoluzionaria che ripristina la giustizia conculcata dal potere corrotto: cosicché la democrazia che sbaglia, fastidiosamente governata dall’impiccio del voto e dalla chiacchiera parlamentare, possa trovare redenzione nei rigori del processo e nel verbo più sicuro delle sentenze.

Naturalmente (è un altro classico) l’esigenza di proteggere una “autonomia” intesa in questo modo, e cioè quale strumento di reazione alla inaccettabile pretesa che le riforme in tema di giustizia siano rimesse alla decisione politica e non siano subordinate all’accettazione della magistratura militante, si giustifica nell’assunto demagogico secondo cui è l’interesse dei cittadini, non quello della corporazione, a trovare tutela nel perpetuarsi del dominio togato. Chissà se c’è speranza che questo falso cominci a essere riconosciuto.