“Questa roba”. Così il presidente dell’Ordine dei giornalisti definisce i colloqui tra magistrati e giornalisti che pianificavano la linea delle pubblicazioni: «Prenderemo in esame questa roba e gli uffici procederanno», ha spiegato in un’intervista a questo giornale. E vedremo come procederanno, ma è certo che per ora la faccenda sembra gestita con una certa noncuranza (in casi diversi, anche recenti, abbiamo assistito a ben altra solerzia interventista). La realtà è che questo apparato di diretta derivazione fascista, che si occupa perlopiù di monitoraggio politico-ideologico, ha molto poco da dire e anche meno da fare a proposito di “questa roba” per la ragione molto semplice che si tratta di un’interfaccia di potere consolidato e ormai intoccabile; e non descrive un’aberrazione ma rappresenta la regola.

Da almeno trent’anni il giornalismo (non quello “giudiziario”, tutto) è organizzato a dar voce alla magistratura raccogliendone e riproponendone le ruminazioni in un circuito – quello mediatico-giudiziario, appunto – di reciproco accreditamento: tutte le balle sulla deontologia del cronista sono sepolte sotto un quarto di secolo di quel malcostume conosciuto da tutti e che va dal poveretto con taccuino in mano a farsi le ossa nei corridoi delle procure sino ai palchi supremi dove si incontrano le star, tipo Marco Travaglio che intervista Davigo dandogli del tu e quello spiega che i magistrati sono tanto onesti mentre nel resto d’Italia è tutto un magna-magna di ladri e politici corrotti. Tra questi due poli c’è la terra di mezzo del giornalismo ammazza-diritti, quello che “se c’è una notizia bisogna darla” (in prima pagina l’avviso di garanzia, all’inizio dell’indagine, mentre l’assoluzione finisce in trafiletto affogato in ventiduesima), e a patto che la notizia non sia altrimenti scomoda: vale a dire quando intacca il lustro delle categorie interessate perché include il nome che è meglio non fare.

Tra il caso del giornalista che chiacchiera col plenipotenziario di una banda del Consiglio superiore della magistratura e quello del conduttore tivù che organizza gli applausi del pubblico in favore del pm di turno io non ci vedo tutta questa differenza. Non occorre fare l’esempio più strepitoso, che è quello di Telecinquestelle (alcuni la chiamano La7), dove la pratica è più ricorrente e disinibita. Pressoché sempre e ovunque, infatti, funziona allo stesso modo. Chiamano l’influencer della magistratura, gli mettono a disposizione la fascia buona e via col giornalismo coi controcazzi: “Dottore, è vero che la politica è marcia?”. Vero, dice quello. “E invece magistrati sono bravi, vero?”. Bravissimi, dice. Saluti finali, sigla, e arrivederci a domani col prossimo maschio alfa della magistratura televisiva che ci spiega come siamo in pericolo se un ottantenne terminale di cancro muore in ospedale anziché al 41-bis. L’Ordine dei giornalisti è puntualmente impassibile davanti a queste esibizioni di coraggiosa deontologia, e che non dimostri troppo allarme nel caso del mastruzzo tra la firma illustre e la fonte togata è ben poco stupefacente.