Il mass media più potente oggi si chiama trojan. Non è una testata registrata ma un formidabile broadcaster: tutto ciò che capta viene pubblicato e dibattuto in televisione. Tutto o quasi, perché quando il meccanismo va in cortocircuito, perché riguarda il mondo dell’informazione e in particolare alcune firme dei grandi quotidiani, il pudore e i distinguo hanno la meglio. E al feroce impeto del “pubblicare sempre, pubblicare tutto”, subentra l’improvvisa scoperta della “non rilevanza”. Verso se stessi. È bastato un trojan, inserito tramite un escamotage studiato dal Gico della Guardia di Finanza nel telefono di Luca Palamara, ex consigliere Csm ed ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, ed apriti cielo: i verbali depositati presso la Procura di Perugia ci restituiscono impietose immagini di confidenzialità tra alcune Procure e alcune redazioni, senza soluzione di continuità. A dispetto di quanto avviene di solito, e della clamorosa complicità che trapela dalle carte tra grandi firme e Palamara, non ne troviamo alcuna traccia nel dibattito pubblico.  Chiediamo cosa ne pensa il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Carlo Verna. Giornalista Rai che prima di fare il giornalista indossava la toga. Da avvocato.

Ha letto le intercettazioni sui giornalisti che parlavano con Palamara?
Veramente no. Ma lei mi ha fatto venire la curiosità. Le leggerò.

In effetti, troviamo verbalizzati rapporti di prossimità, per non dire di complicità.
Il “giro di nera”, agli inizi della mia carriera, era fatto di telefonate quotidiane alle fonti di informazione che per la cronaca locale sono commissariati e comandi dei Carabinieri, e poi a salire… A volte si finisce per stabilire rapporti di amicizia, succede tra cronisti di giudiziaria e magistrati. E succede anche che al fine di ottenere notizie, a volte la fonte viene blandita.

Qui leggiamo di una prestigiosa firma di “Repubblica” che avvisa di corsa Palamara, mettendolo in guardia perché c’è un’altra giornalista che lo starebbe per raggiungere per strappargli una dichiarazione. Non è proprio il “giro di nera”.
Se fosse confermato, penso dovrebbe riunirsi ed esprimersi il Comitato di Redazione di Repubblica, chiederne conto all’interessata e poi investire del caso il Consiglio di Disciplina del Lazio.

Iniziamo con i distinguo. Se Palamara fosse stato messo in guardia dall’arrivo di una giornalista da un parlamentare, invece…
Preferisco che se ne occupino i consigli di disciplina. Prenderemo in esame questa roba e gli uffici procederanno.
Si può fare giornalismo facendo il gazzettino delle procure, limitandosi a pubblicare intercettazioni?
L’intercettazione è un mezzo invasivo su cui va fatta una riflessione seria. Ma è un mezzo di investigazione. Il giornalista ha l’obbligo di pubblicare tutto ciò che è rilevante, se ne viene a conoscenza, quando siano notizie comprovate e di interesse sociale.

Vale anche se ad essere intercettati sono i giornalisti?
Vale anche per i giornalisti stessi, certo. Se quel che dicono in una intercettazione è rilevante dal punto di vista pubblico.

Ma qui veniamo al secondo problema. Chi decide cosa è rilevante socialmente? I giornalisti stessi. E quando sono intercettati il conflitto di interessi esplode.
Esiste una coscienza professionale, alla quale faccio appello. Il giornalista deve rimanere terzo, tra la fonte e il pubblico dei lettori, soprattutto quando si parla di giustizia.

I giornali possono vivere senza diventare gazzette delle procure?
Sarebbe auspicabile. Il bravo giornalista è quello che non cede a farsi megafono ma studia, domanda, approfondisce.

Questo non avviene quando si diventa troppo familiare con una fonte.
Cosa che può accadere e va valutata caso per caso. La “nobilitate” si fa valere quando la fonte prova ad andare al di là del mero rapporto informativo.

In Italia si continuano a celebrare quattro gradi di giudizio, il primo è il processo mediatico.
Il processo mediatico è un male per questo Paese. Siamo d’accordo. Ci vuole molta responsabilità. Certo, se dessimo solo la notizia della condanna definitiva, non pubblicheremmo quasi più nulla.

Rimane che c’è troppa commistione.
Non vorrei sparare giudizi sui cronisti della giudiziaria. Certo è che molti sollevano questa questione. Ai colleghi ripeto: “Magis amica veritas”, la più grande amica di tutti sia sempre la verità.

È favorevole alla separazione delle carriere tra magistrati e giornalisti?
(Ride) Questa è una cosa che dite voi.

Esistono anche troppe fabbriche dei dossier.
È chiaro. Smentirei la realtà, se lo negassi. E spesso sono caratterizzati da fuoco amico. Casi di cronaca hanno dimostrato che c’è sempre una parte che trama contro l’altra.

Vale anche per i giornalisti?
Vale per tutti.

E i giornalisti poco corretti vengono sanzionati puntualmente?
Non sono del parere che non si possa querelare un collega. Se qualcuno per danneggiarti mischia il vero con il verosimile e il falso, quello va sanzionato in tutte le sedi. Anche civili e penali.

Che clima c’è tra i giornalisti?
C’è tanto veleno nella categoria. Su questo nessuno ha la ricetta. Un clima imbarbarito dalle interazioni in Rete: prevalgono insolenza e ignoranza, anche tra i colleghi giornalisti. Il giornalista sui social alle volte dà il peggio di sé. A tutti ricordo: il giornalista è giornalista sempre, qualunque tipo di comportamento è sanzionabile. Noi incarniamo la professione 24 ore al giorno.

Come è cambiato il giornalismo in questi anni?
Dobbiamo far capire alla gente dove sta la verità. La nostra funzione è oggi ancora più importante, in un mondo disintermediato. Io dico che i professionisti dell’informazione seri, servono più di ieri. Troppi si autoproclamano media indipendenti senza averne esperienza e competenza.

E sulla giustizia si finisce spesso per dare il peggio.
Ricordo il libro del grande Vittorio Roidi: Coltelli di carta. Possiamo uccidere la dignità delle persone, con i nostri articoli. Stiamo attenti, stiamone distanti. Nel momento in cui interveniamo su un momento così delicato della vita di una persona come quello in cui va a processo e può perdere la libertà personale, dovremmo avere la delicatezza di parlarne come se si parlasse di noi stessi. La nostra coscienza è arbitro, e va azionata come non mai.

Sulle sanzioni disciplinari contro certi titoli l’OdG ha battuto un colpo.
Ho pungolato il Consiglio di Disciplina. Abbiamo fatto un’operazione dicendo che come ente pubblico a carattere associativo dobbiamo difendere il buon nome della categoria dei giornalisti. E abbiamo dato mandato a una avvocatessa, Caterina Malavenda, di calcolare se anche noi tutti singoli iscritti abbiamo sùbito danni dalla condotta di Feltri, con riferimento alla campagna discriminatoria contro i meridionali.

Come si ridà dignità a questa professione?
Ci sono molti interventi urgenti. Occorre un nuovo quadro normativo, siamo nel 2020 con una legge del 1948. La legge sulle iniziative giudiziarie temerarie deve riprendere il suo iter, interrotto dal virus a febbraio. E poi c’è una questione ordinamentale importante: noi siamo vigilati dal Ministero della Giustizia. Può un potere di controllo sottostare al Ministero della Giustizia, come in Iran? È una norma che esiste dal 1963, ma è sbagliata. E va cambiata con urgenza.

Tante battaglie, e Verna è a fine mandato.
Finisco il mandato e non penso di ricandidarmi, largo ai giovani. Lascio a verbale tante battaglie e qualche iniziativa. A Feltri ho imposto un aut-aut: esiste l’art.21 ma anche l’art.3, che vieta ogni discriminazione. Ed esiste la legge Mancino, in primis per noi che scriviamo. Il Consiglio della Campania ha radiato il conduttore sportivo che aveva fatto una telecronaca sessista. In Piemonte una insegnante scrisse cose orrende su un agente di polizia morto, “uno di meno”. Si scoprii che era anche giornalista pubblicista, il Consiglio di disciplina del Piemonte l’ha radiata.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.