Io sono molto orgogliosa del “mio” giornale: in perfetta solitudine nei giorni scorsi abbiamo annunciato lo scoppio di Giornalistopoli. Non abbiamo pubblicato le tonnellate di intercettazioni del caso Palamara, non abbiamo fatto i nomi dei colleghi giornalisti che compaiono in quelle trascrizioni (e parecchi nostri lettori hanno detto che abbiamo sbagliato a non farli) e i cui comportamenti denotano un vassallaggio nei confronti di certi pm che è davvero triste, ma abbiamo detto che il re è nudo: a suon di conversazioni carpite si è disvelata nei dettagli l’architettura di quel circuito mediatico-giudiziario che da Mani Pulite in poi, rafforzandosi sempre di più, ha influenzato e talvolta predeterminato il processo democratico in ogni suo rivolo, producendo una commistione fra poteri che l’ipocrisia si ostina a definire inammissibile, ma che è praticata massicciamente. Un’architettura fondata su un’alleanza di ferro fra alcuni pm e alcune firme giornalistiche, nota certo a tutti, ma mai vista prima d’ora in tutte le sue pieghe, e oggi finalmente evidente. Così si capisce di cosa ha paura la politica da trent’anni a questa parte. Così si capisce come può capitare, al politico sgradito, di esser fatto fuori, che si tratti di Berlusconi o Renzi o Salvini. E così si capisce perché la politica, di qualunque colore, è diventata pusillanime e quindi inutile.

È positivo che alcuni altri giornali – evidentemente liberi – in questi giorni ne parlino. Ed è positivo che una larga parte della magistratura sia costernata, indignata, dai fatti emersi in questi giorni e stia lavorando con responsabilità per voltare pagina. Dentro la magistratura, come dentro il giornalismo, come dentro la politica, come dentro la vita, il Bene e il Male albergano sempre assieme in un eterno scontro che a volte si fa abbraccio e quindi per prima cosa bisogna spazzare via la tentazione di generalizzare. Ma davvero penso che questa possa essere l’occasione storica per fare un passo avanti. E per questo mi piacerebbe che i giornali che contano, le testate gloriose, non facessero finta di nulla ma anzi si rendessero per prime protagoniste di un tentativo di cambiamento. Parlo di quelle che negli anni si sono accreditate di più nell’indefesso lavoro di andare a snidare i politici e i loro traffici (veri o presunti) grazie all’accesso a materiale investigativo secretato o a intercettazioni. Lo hanno fatto talmente tanto che le intercettazioni da mero strumento di indagine sono diventate nel tempo un consolidato strumento politico secondo una modalità tollerata ma intollerabile che ha prodotto solo macerie da trent’anni a questa parte.

Non ci siamo dimenticati, vero, dell’invito a comparire recapitato al presidente del Consiglio Berlusconi a mezzo Corriere della Sera mentre ospitava una riunione internazionale sulla criminalità organizzata a Napoli nel 1994? Non so quante persone – e quanti politici – sono stati travolti dalla pubblicazione di intercettazioni sui maggiori giornali italiani. Un numero incalcolabile. Anche io, nel mio piccolo, sono fra queste. E poco importa se le varie tesi accusatorie ipotizzate a corredo delle intercettazioni poi si rivelino inesistenti. I processi veri oggi si fanno sulle pagine dei giornali, non nei tribunali, e quando le sentenze arrivano è troppo tardi. Avendo vissuto l’esperienza in prima persona posso assicurare che ben poco esiste di più incivile di questa modalità per fare i conti col nemico di turno o per rendere realistico uno stereotipo, un pregiudizio. Le intercettazioni hanno di bello che si possono selezionare a piacimento, usarle come tanti piccoli pezzi di carta per costruire il collage che si ha in testa. Possono raccontare mille realtà diverse in base a come sono ritagliate, e tutte quelle realtà possono essere plausibili.

In più, hanno di bello che registrate su un bel file digitale e schiaffate su internet acquisiscono il dono dell’eternità: possono risalire a 15 anni prima ma fissate in quel modo sembrano sempre fresche come uova di giornata, congelando così per sempre anche la presunta colpa del malcapitato. È una barbarie, diventata ghiotta normalità qui da noi, unico caso al mondo. Ne hanno beneficiato alcuni pm per le loro carriere e il loro potere? Certo. Ma ne hanno beneficiato molto anche i giornali e questa è la novità di questi tempi: finalmente si capisce che anche tante carriere di giornalisti e tante copie di giornali vendute sono il frutto di questa perversa abitudine, spesso scudata da quello che chiamiamo diritto di cronaca o addirittura diritto di critica. Contro questa deriva combatto da molti anni, si può dire che stia alla base della mia scelta di fare politica e sono contenta che si stia aprendo uno squarcio nella più perniciosa delle collusioni e delle ipocrisie del cosiddetto mondo dell’informazione. Era facile prevedere che chi di intercettazione ferisce di intercettazione perisce, perché l’ascolto e la pubblicazione degli affari altrui sono come il miele, golosissimo ma ci si può rimanere incollati.

E oggi tocca alla magistratura e al giornalismo fare i conti con un costume del quale hanno beneficiato insieme. Sarebbe stato bello che per coerenza, viste le tante persone messe tragicamente alla berlina in questi anni, i giornali che contano avessero usato lo stesso criterio – il diritto di cronaca – anche per i loro giornalisti rimasti impigliati nelle maglie di questo sistema. Invece no. Ecco perché sono la vera casta. Perché possono praticare un sistema di autotutela di cui la politica non dispone più, essendosene lasciata spogliare da Mani Pulite in poi. Quando ero all’inizio della mia attività politica feci una battaglia perché la pubblicazione di intercettazioni fosse ascritta al reato di ricettazione: in fondo di questo si tratta, trarre profitto da materiale acquisito illecitamente. Fui attaccata duramente da alcuni miei colleghi giornalisti, anche importanti. Dissero che ero una cretina e che volevo censurare il diritto di cronaca. Invece volevo evitare che si arrivasse alla situazione perversa in cui purtroppo ci troviamo, cominciando a trattare la pubblicazione di intercettazioni per quello che spesso è: un’illegalità. E comunque una pratica incostituzionale. Quella battaglia la persi, così come molte altre.

Oggi mi piacerebbe che ci tenessimo stretta l’occasione di vincere, invece, una battaglia di civiltà che possa progressivamente condurci verso una fase nuova della nostra storia nazionale e che possa lasciarsi alla spalle l’eredità di Mani Pulite: coltivo la speranza che si possa ricondurre l’uso delle intercettazioni al perimetro rigido entro cui deve restare, e cioè quello dello strumento investigativo, troncando ogni legame di interesse col mondo mediatico. So che è come far rientrare il dentifricio dentro il tubetto, praticamente impossibile. Ma so anche che non esiste riforma della giustizia che non affronti questo tema. Se non riportiamo questa pratica nell’alveo giusto, se non guardiamo in faccia l’aberrazione sistematica che si è prodotta e continuiamo a far finta di nulla perché ci riteniamo al riparo dal rischio di finirci in mezzo, produrremo più manipolazione, più sovvertimento del processo democratico e più ministri della giustizia che anziché rinsaldare i principi basilari del diritto, pensano a piazzare dei trojan nei nostri telefoni con la promessa di garantire più etica per tutti.