Un filosofo del secolo scorso sosteneva che era sciocco svegliarsi al mattino e stupirsi di essere le stesse persone che si erano coricate la sera prima. Un simile abbaglio capita anche alle comunità che, periodicamente, si scandalizzano fino a farne un’ossessione, quando diventano noti fatti, costumi, episodi, prassi che passavano da anni sotto i loro occhi, da cui magari erano indirettamente coinvolti, ma non venivano sbattuti in prima pagina. È ormai evidente che, per essere preso in considerazione, un caso deve passare più volte sugli schermi televisivi. Vogliamo fare qualche esempio? Verrebbe da chiedersi se esista ancora un Paese di nome Venezuela che mesi or sono, a causa di conflitti molto aspri tra governo e opposizione, era tra le prime notizie del telegiornale. Anche con riguardo all’epidemia, le notizie stanno perdendo di intensità ben oltre la reale dimensione dei fatti. Abbiamo avuto un tempo in cui tutti morivano di Covid, a prescindere da precedenti gravissimi stati di salute. Adesso si gioca coi dati dei decessi come con il tavolino e le tre carte all’esterno delle stazioni delle grandi città. Per un paio di giorni i tg annunciano che, nella martoriata Lombardia, vi è un calo dei decessi.

Poi, nel fine settimana, il loro numero aumenta di nuovo perché – spiegano le autorità – vengono aggiunte le certificazioni dei decessi che nei giorni precedenti non erano state trasmesse perché non ancora pervenute. Come se nel cuore della Pianura Padana i postini si spostassero a cavallo. Questi defunti “in ritardo” – come se fossero anime morte, non conteggiate nel momento in cui hanno reso l’anima al Signore – vengono messi da parte anche nel giorno in cui arriva la notizia ufficiale del loro decesso. Ma a che cosa serve tutta questa premessa? Sembrerà strano ma intendiamo parlare dell’ordinamento giudiziario nei giorni in cui il caso Luca Palamara si arricchisce di intercettazioni a strascico che non solo mettono in difficoltà l’ex presidente dell’Anm, ma un sacco di altre persone che venivano coinvolte (libero telefono in libero Stato) nei suoi traffici dedicati a pratiche antiche come il mondo: piazzare i “magnanimi lombi” di sodali sulle poltrone dalle quali si amministra la giustizia. E, ovviamente, per poterlo fare occorrevano accordi di spartizione tra le correnti della magistratura, sapendo che una mano lava l’altra e ambedue, insieme, lavano il viso (considerazioni molto pertinenti in tempi di epidemia).

Luca Palamara non è l’origine di una pratica intrallazzona che ha contagiato la sacralità dell’Olimpo della Magistratura. È – per dirla con un linguaggio in uso a Palazzo dei Marescialli – “uno che è stato beccato”; ha fatto tante telefonate di troppo, che lo hanno messo nei guai insieme agli interlocutori – politici o colleghi – con i quali trattava per distribuire incarichi, sulla base di un simil-manuale Cencelli, tra le diverse correnti dell’Associazione nazionale magistrati. Nel suo caso, “galeotte” furono le intercettazioni, un metodo di indagine ormai abusato anche per scoprire i ladri di polli. Un metodo che ha consentito al kombinat tra Procure e media di condannare alla gogna il presunto imputato prima ancora di chiudere formalmente le indagini e rinviarlo a giudizio. Probabilmente ha avuto sfortuna perché si è preso la libertà di cenare con Luca Lotti ovvero col braccio destro di Matteo Renzi, la cui famiglia era al centro di un’indagine che aveva determinato persino un conflitto tra Procure. In sostanza, si era intrufolato, per caso, in una vicenda che stava, allora, al centro della battaglia politica. Così le intercettazioni delle sue telefonate hanno d’improvviso illuminato la penombra degli affaires del Csm. Ma quando viene allo scoperto ciò che tutti sanno, ma fingono di non vedere, è il momento opportuno per sollevare uno scandalo.

La legge del contrappasso ha voluto che l’Anm entrasse in crisi come accadde al sistema politico ai tempi di Tangentopoli (ovviamente nessun paragone tra le due vicende) e che Gian Carlo Caselli avvertisse il pericolo di una vendetta della politica come risposta alle tante umiliazioni patite negli ultimi decenni. Ma non succederà nulla, perché Palamara ha un ottimo strumento di difesa: aprire i dossier delle carriere di tanti suoi colleghi e dimostrare che lui non ha fatto niente di diverso da quei patti tra correnti che hanno governato l’ordinamento giudiziario. Quanto al potere politico, c’è un ministro della Giustizia che si lascia insultare da un pm membro del Csm e replica, in risposta ad una mozione personale di sfiducia che trae origine da quegli insulti, come un cagnolino bastonato dal suo padrone in toga.

Si è fatto un gran parlare del ‘’salvataggio’’ di Alfonso Bonafede da parte di una maggioranza compatta. Eppure, non ci si poteva attendere altro. Non tanto per evitare la crisi di governo, quanto piuttosto perché su certe linee strampalate di politica giudiziaria tutto il governo è d’accordo. Il decreto contro le scarcerazioni, che rappresenta l’ultima raffica dell’abiezione manettara, l’hanno preteso più o meno tutti i partiti e non solo di maggioranza.