Nel 2011 un libro importante di Federico Varese (Mafie in movimento. Come il crimine organizzato conquista nuovi territori, Einaudi), spiegava che ciò che sposta e radica le mafie verso altre regioni non è una primordiale volontà di dominio, ma una robusta ed esigente domanda di illegalità che proviene dalla società. Una tesi ovviamente andata di traverso ai seguaci della teoria del contagio, dell’immagine di un centro-nord immacolato, occupato dalla prepotenza mafiosa. Le mafie, secondo lo studioso di Oxford, si limitano a strutturare la domanda di illegalità; guarda caso la sanno, come dire, “organizzare” bene. Niente domanda, niente mafia.  Non è indolore passare dalla prospettiva della domanda di protezione (Gambetta) a quella della domanda di illegalità (Varese) perché comporta anche una realistica presa d’atto del degrado complessivo della società da Lampedusa ad Aosta, anzi da Malta ad Amsterdam.

Consumata la premessa e sicuro del fatto che il direttore avrà dato all’articolo un titolo che mette in correlazione mafia e magistratura, si potrebbe sbrigare la pratica ricordando che un autorevole magistrato, solo pochi mesi or sono, aveva esplicitamente denunciato che tra le toghe si fa «carriera solo con le correnti, ma sono criteri vicini al metodo mafioso». Un punto di vista già sperimentato, quindi, che ha suscitato una valanga di polemiche e che sarebbe superfluo riproporre, se non fosse. Se non fosse che il profluvio di chat e di telefonate che scorre dal telefono di Luca Palamara e che è finito (ancora in parte) sui giornali, richiama alla mente lo schema di Federico Varese. È inevitabile chiedersi quanto la domanda di illegalità che, per anni e quotidianamente, si indirizzava supplice, ammiccante, adulante verso il cellulare del magistrato abbia avuto un ruolo determinante nelle condotte che così tanto scandalo suscitano in irriducibili benpensanti e finti moralisti. La questione, invero, si declina in due diverse direzioni.

Primo: non bisogna saper far di conto per immaginare che se Luca Palamara riusciva a portare a casa così tanti successi – sia quando era componente del Csm che dopo – una rete di consenso dentro e fuori quell’istituzione lo ha costantemente ascoltato e appoggiato. Sarebbe interessante andare a riprendere i singoli incarichi, le singole delibere cui si riferiscono le chat e controllare con quanti voti siano state approvate, con quali maggioranze e quali opposizioni, quali i pacchetti di nomine in cui si inserivano. Quei pacchetti, ferocemente stigmatizzati finanche dal Quirinale, che costituiscono il metodo per tradurre in risultati le aspettative delle toghe più ambiziose. Immaginare che, da solo, il reprobo potesse mettere in soggezione la complessa compagine di toghe e politici che compone il Csm è difficile a credersi. Certo lo crederanno gli immancabili farisei, ma voler imporre un simile punto di vista a tutti è operazione da regime militare o da sciocchi. La questione non è di poco conto per il futuro della magistratura italiana. Lo avevamo già detto: se il processo a Perugia dovesse arrivare in dibattimento c’è da attendersi un bagno di sangue con tante toghe nello scomodo ruolo toccato al povero Forlani, torchiato a Milano e immortalato con la bava che solcava la bocca resa secca dall’imbarazzo. È una prospettiva credibile se l’imputato vorrà puntare l’indice sul sistema e ritagliarsi il ruolo di uno dei tanti collettori della domanda di illegalità che si è impadronita di settori non marginali della magistratura italiana.

Una gigantesca chiamata in correità con tutti i beneficiari e aspiranti beneficiari che dovrebbero giustificare perché mai sottoponessero proprio a Palamara aspirazioni, angosce, feroci pettegolezzi e veleni contro rivali, veri o presunti. Ancora peggio tutti chiamati a spiegare quale fosse la percezione del sistema delle nomine e quali i collettori avversari che sostenevano i loro competitor. Messo in questi termini è difficile sostenere che esista un affaire Palamara. Molto più corretto sarebbe immaginare che quanto scoperto sia il sintomo di una malattia che affligge una parte della corporazione e che, con coraggio, il presidente, allora appena nominato, dell’Anm aveva riassunto in termini chiari: «esiste un problema di carrierismo; è una delle ragioni delle degenerazioni e non è coerente con le nostre funzioni». Opinione recentemente ripresa in un’intervista «fin quando ai magistrati sembra interessare più la carriera che il lavoro, il problema c’è».

Secondo: questa analisi è dirompente, è un j’accuse spietato che getta un fascio di luce su un profilo sinora tenuto in ombra. Agita il più inquietante dei dubbi. Quanto ha influito il mercato delle carriere sul lavoro giudiziario, sulle indagini, sulle fughe di notizie, sugli agguati agli avversari, sulle inchieste ai politici invisi o semplicemente nella soluzione di una controversia condominiale rimessa a un giudice perennemente alla ricerca di un contatto, di un appoggio, di una rassicurazione. Per fortuna la stragrande maggioranza della magistratura italiana non ha nulla a che vedere con questi dubbi e con queste angosce. È quella maggioranza che, talvolta, inciampa nella domanda di protezione dall’aggressione di agguerriti rivali, ma che non è incline ad alcuna domanda di illegalità. Tuttavia il problema è ineludibile e il corpo giudiziario deve essere immediatamente bonificato dai troppi malanni che l’affliggono. Prima di metter mano a riforme parziali e insufficienti sarebbe giusto mettere in campo una seria e autorevole commissione d’inchiesta parlamentare che – al di là del codice penale e di quello disciplinare – chiarisca cosa è effettivamente successo e quali siano i rimedi da adottare su larga scala. In tanti, tantissimi magistrati ne sarebbero grati, figuriamoci il Paese.