Non è certo per aver scansato di un soffio una mozione di censura che la Quinta Repubblica è immunizzata dalla lunga crisi di legittimazione (politica, istituzionale, sociale). La Francia rischia di esplodere, o meglio, dinanzi a un allarme sociale che su un tema persino marginale sfocia nella rivolta, ancora una volta le sue istituzioni vacillano. Le emergenze a Parigi nascono dall’alto o dal basso. Tra l’Eliseo e la “strada” l’alta tensione scoppia ad intermittenza.

Il fenomeno lo analizzò già Marx dinanzi all’emergere del bonapartismo nella crisi della Seconda Repubblica. La frattura di oggi riproduce storie di ieri. Saltando il Parlamento, con partiti distrutti e sindacati maltrattati, il presidente Macron si arrocca nel palazzo. E così, dinanzi al decreto brandito come decisiva forma di legislazione, evoca la strada, che con i gesti della ribellione appare quale unica risorsa rimasta agli oppositori in un quadro istituzionale ormai bloccato. In Francia è più grave che altrove la crisi della democrazia rappresentativa. Sembrava che il sistema semipresidenziale avesse riassorbito la dura rivolta del 2018. Un giovane e abile “tecno-populista”, inventando un movimento personale, era riuscito a sbarrare per due volte l’ascesa della destra radicale. Il falò acceso dai gilet gialli aveva evidenziato quanto rancore covasse nelle periferie della società. Ben 2.500 manifestanti e 1.800 agenti di polizia rimasero feriti negli scontri. Lo scettro affidato al presidente decisore, che comanda nel completo vuoto dei partiti e nella irrilevanza dell’Assemblea nazionale, attizza come fenomeno di reazione il fuoco della piazza.

Non basta vincere, e tornare per la seconda volta all’Eliseo, per curare un male di vivere delle istituzioni che ha radici così profonde che neppure l’abilità creativa di un capo dello Stato può estirpare. Come risposta all’insubordinazione, il presidente “gioviano” nel 2018 rispose con ulteriori incentivi alla disintermediazione. Macron si inventò un “grande dibattito nazionale” e i politologi santificarono la sceneggiata della chiacchiera in libertà come “il più grande esercizio di democrazia deliberativa che si sia mai visto nel fino ad oggi”. La solitudine del presidente e la finzione di una democrazia deliberativa coltivata contro la rappresentanza, che è svuotata dalla disintegrazione dei partiti, lasciano affiorare il tallone d’Achille del regime a due motori (governo e Presidente). Aveva visto bene il politologo A. Lijphart (Parliamentary versus Presidential Government, Oxford University Press, 1992) quando scorgeva nel semipresidenzialismo non già un presidenzialismo in tono minore e mitigato, ma un autentico centauro imperscrutabile.

A seconda delle congiunture, infatti, esso presenta una testa iperpresidenzialista (il governo come una semplice appendice dell’Eliseo) oppure rivela una riemersione della rappresentanza nel segno di una stagione parlamentare, sia pure condizionata (coabitazione tra capo dello Stato e primo ministro di diverso colore politico). I buchi neri del sistema costituzionale lo espongono, per la sua ambiguità strutturale, alla incertezza della catena di comando, con conseguenze negative che vanno “dall’intrigo alla paralisi decisionale”. Secondo la diagnosi di Juan Linz (The Failure of Presidential Democracy, Johns Hopkins University Press, 1994), il meccanismo bimotore è vulnerabile e indirizzato verso una latente crisi di regime perché “in un sistema semipresidenziale, i conflitti politici spesso si esprimono come un contrasto tra due rami della democrazia”. Secondo l’interpretazione di Linz, in determinate circostanze il modello semipresidenziale è indotto a forzare le procedure sino a scivolare verso “a constitutional dictatorship”.

Sinora la questione di come convivere con le trappole di una doppia legittimità aveva evidenziato problemi di debolezza, sovrapposizioni, contraddizioni nelle politiche, disaccordi sulle prerogative soprattutto nella politica estera. Oltre all’incertezza di un regime dualistico condannato alla “instabilità e inefficienza”, la Quinta Repubblica è però perennemente tentata anche dall’eventualità di lambire una più generale crisi costituzionale. In caso di ingresso in scena di un presidente sleale, avverte Linz,non si può escludere la tentazione di governare senza o contro il legislativo, di sciogliere la camera per cercare una nuova maggioranza e, in caso di fallimento nel suo obiettivo, ricorrere ad un uovo scioglimento di lotta per inseguire una strategia di autogolpe”. Assai lucidamente, ragionando sul piano astratto, ha compreso in anticipo il volto esplosivo della situazione istituzionale odierna (il fenomeno inedito di un presidente che deve spingere autoritativamente un suo governo di minoranza) Cindy Skach (Borrowing Constitutional Designs. Constitutional Law in Weimar Germany and the French Fifth Republic, Princeton University Press, 2005, p. 17), che parlava con estremo allarme delle implicazioni di un “governo di minoranza diviso”.

Si tratta di un sottotipo assai conflittuale di regime semipresidenziale nel quale “né il presidente né il primo ministro, né alcun partito o coalizione, godono di una maggioranza sostanziale nell’assemblea legislativa”. In tali circostanze, si registrano “l’immobilismo legislativo, da un lato, e il continuo dominio presidenziale, dall’altro”. Quando non basta al capo dello Stato imporre di continuo la decretazione governativa, trasformando l’esecutivo in un debole braccio operativo dell’Eliseo, la supremazia presidenziale si amplia a dismisura restringendo ancor più gli spazi del legislativo e delegittimando di continuo le residue funzioni della rappresentanza parlamentare. Emergono insieme i difetti peggiori del presidenzialismo e dell’assemblearismo. In nome di un’emergenza economica che obbliga all’adozione di una riforma delle pensioni, il presidente senza maggioranza in Aula, pur agendo nei limiti delle sue attribuzioni legittime, forza gli equilibri istituzionali per usurpare prerogative del parlamento e umiliare i residuali partiti non coalizzabili.

“Il presidente in questa situazione è impotente di fronte alle maggioranze fallite, anche se gode del potere costituzionale. A seguito di questa debolezza, spesso i presidenti tentano di trascendere i loro limiti costituzionali, per sostituirsi alla maggioranza legislativa, a spese dei partiti politici che stanno tentando di affermarsi come canali effettivi tra cittadini e governo. Questo è il motivo per cui il governo di minoranza diviso, più degli altri sottotipi di semipresidenzialismo, ha un rischio maggiore di crollo democratico” (Skach, ivi). Poiché il ricorso allo scioglimento autoritativo dell’Assemblea riottosa all’approvazione di una riforma controversa non assicura la certa maggioranza al partito personale dell’Eliseo, il braccio di ferro continua con costi politici e sociali allarmanti. E a gestire lo scontro non è tanto un conflitto di poteri (capo dello Stato versus Parlamento) quanto un’imprevedibile prova di forza tra palazzo presidenziale e strada. Una battaglia nuda, senza canali di mediazione, forme, procedure.

La mossa di Macron, sfidare gli equilibri istituzionali fragili senza badare agli strascichi di sistema, rivela che il cosiddetto semipresidenzialismo è suscettibile di forzature e abusi persino superiori a quelli ipotizzabili con il presidenzialismo puro, che di norma è ben frenato dai contropoteri e dalla separazione procedurale delle competenze degli organi statali. Saltati i partiti, archiviata la coppia destra-sinistra, strapazzato il Parlamento, non resta che lo scenario inquietante di un capo solo al comando contro la cui volontà di potenza insorge la strada. Scene di ordinario bonapartismo.

Che un sistema costituzionale così aporetico, sulla via del collasso, possa essere assunto in Italia come un grande modello da inseguire a colpi di maggioranza, rientra tra le assurdità della politica. Neanche le vicende storiche sembrano in grado di suggerire qualcosa alle ideologie costituzionali. Dopo il crollo sovietico, molti degli Stati post-comunisti guardarono alla Casa Bianca o all’Eliseo per conformare i loro ordinamenti rinnovati. Sopravvivono, dopo le cattive importazioni, solo delle pallide democrature per le quali continua a stravedere Meloni. Dinanzi a un governo che, sfidando le dure repliche del principio di realtà, intende imitare le decrepite istituzioni golliste, è indispensabile una vigilanza democratica e costituzionale ancora più forte.