Gli indizi sono univoci e concordanti: abbiamo perso il posto nella motrice del treno Europa, se ci va bene siamo un vagone di seconda classe, più o meno a rimorchio. Dopo anni di marginalità, nei diciotto mesi di governo Draghi avevamo ritrovato centralità e affidabilità. Parigi e Berlino avevano bisogno di Roma e di Mario Draghi. Ora non sembrano avere più bisogno di Giorgia Meloni.

Il primo indizio. Lunedì il vertice economico a Washington, alla Casa Bianca, tra i responsabili economici dell’amministrazione Biden e gli omologhi tedeschi e francesi guidati dal vice cancelliere tedesco Robert Habeck e dal ministro economico Bruno Le Maire. Sul tavolo una partita decisiva per il commercio e l’economia mondiale dopo pandemia e a guerra ancora in corso: Washington ha deciso di pompare denaro, tanto (370 miliardi di dollari) per sostenere le imprese americane e la transizione ecologica. Come impatterà questa iniezione di denaro sul nostro import-export? Come reagisce l’Europa che al di là del Next generation Eu si trova però schiacciata a ovest essendo sempre più precluso il mercato cinese?

Quello che farà Bruxelles lo capiremo nelle prossime ore, alla fine del Consiglio straordinario europeo riunito da ieri mattina nella “nuvola” dell’Europa building. Di sicuro a Washington si è aperta una trattativa riservata, non europea. Il ministro Giorgetti ha alzato il dito in un’intervista collettiva a Figaro, Wall street journal, Financial Times e Frankfurter Allgemaine: “Se l’avessimo fatto noi ci avrebbero accusati di sovranismo e antieuropeismo”.

Tutti gli indizi della nostra distanza
Il secondo indizio. Mercoledì sera, mentre la premier si apprestava a salire sull’aereo per Bruxelles dove la mattina dopo era programmata la cerimonia con Zelensky, il diplomatico di palazzo Chigi apprende per le vie ufficiali che il presidente ucraino, dopo aver passato la giornata a Londra a Downing street con il primo ministro inglese Rishi Sunak, grande finanziatore di uomini e mezzi militari, sta volando a cena a Parigi. Lo ha invitato il presidente Macron. Che ha allargato la cena a tre coinvolgendo il presidente Scholz. Quando su siti e tv passano le immagini del trilaterale, la bile ha già travasato in abbondanza risalendo lo stomaco fino all’esofago dei ministri italiani. Tajani, Giorgetti, Crosetto, la stessa Meloni, pensano: non erano questi i patti. Non doveva andare così.

In realtà i primi cento giorni del governo Meloni sono pieni di indizi che marcano una sempre maggiore distanza dell’Italia dalla centralità europea, dalle tensioni – gratuite – con la Francia sull’immigrazione alle posizioni spesso non univoche su Ucraina e Russia (dannosa anche la marcia indietro sulla presenza di Zelensky a Sanremo). In mezzo tante “foto” simbolo nei vari vertici in cui l’Italia semplicemente non c’era.

La rabbia della premier
Fonti di governo ovviamente provano a minimizzare. Ma le parole della premier ieri mattina appena messo piede sulla guida rossa dell’Europa Building certificano lo strappo. “Mi è sembrato inopportuno l’invito a Zalensky perché credo che la nostra forza in questa vicenda sia l’unità e la compattezza che vengono prima delle esigenze di politica interna che pure capisco benissimo. Ci sono momenti in cui privilegiare la causa politica interna va a discapito della causa in generale. E questo mi pare sia stato uno di quei momenti”.

Parole durissime, che hanno fatto calare il gelo sulla photo opportunity scattata prima della plenaria in cui la premier Meloni è sembrata molto stizzita e sulle sue. Isolata, appunto, tranne qualche chiacchiera di circostanza con chi le stava vicino. Non Macron, che non ha voluto replicare alle critiche della premier italiana e si è limitato a precisare: “Ho voluto ricevere il presidente Zelensky con il cancelliere Scholtz nel contesto del nostro ruolo. Germania e Francia hanno un ruolo particolare da otto anni su questa questione e abbiamo condotto insieme un determinato processo”. Ma per Meloni le delusioni non finiscono.

Ieri è saltato anche il bilaterale con Zelensky, con cui riesce a parlare solo a margine del vertice. Se l’Italia con Draghi aveva dato garanzie e certezze sulla posizione atlantica, negli anni prima Berlusconi e poi Salvini non hanno saputo garantire altrettanto. E neppure adesso che, tornati al governo, un giorno sì e l’altro pure strizzano l’occhio a Mosca e a Putin. Il resto lo ha fatto la premier che, per quanto netta sulla posizione atlantica e pro Ucraina, ha sfruttato ogni altra occasione per rinverdire il suo nazionalismo e sovranismo un po’ acciaccato. In una parola: siamo tornati inaffidabili. E scendiamo dalla locomotiva. Se ci andrà bene, restiamo nel rimorchio.

E allora alziamo i muri. Con Orban
Tutto questo non dovrebbe avere effetti immediati sulla guerra in Ucraina. Si spera, almeno. Quel “la risposta a Macron arriverà nelle prossime settimane”, non prelude nulla di buono. Gli effetti immediati li avremo invece sugli altri dossier all’ordine del giorno del Consiglio. A cominciare dall’immigrazione. Nella bozza finale si legge che la migrazione è “una sfida europea che richiede una risposta europea”. E’ una grossa novità ed è una vittoria del nostro governo. Dopo la scornata sulle Ong, far mettere per scritto che il problema è europeo e tale deve essere la risposta, è un passo importante. Che non risolve nell’immediato ma apre una strada nuova, ad esempio cambiare Dublino e introdurre il permesso di soggiorno europeo.

Il problema è l’altra novità che ha preso forma proprio alla vigilia: otto paesi membri, i baltici ma anche Malta e Grecia e, immancabile, Viktor Orban chiedono alla Ue di “alzare più muri”. Una ricetta cara al leader ungherese. “Per mantenere l’Europa al sicuro, la Ue deve finanziare la protezione dei nostri confini, comprese recinzioni e altre barriere fisiche”. E anche a Giorgia Meloni quando era leader dell’opposizione sovranista. E’ un inedito asse nord-sud tra cui si contano Danimarca, Lituania, Lettonia, Estonia, Slovacchia, Grecia, Malta e Austria. Il finanziamento diretto a barriere statiche è stato più volte escluso da Bruxelles perché nessun muro sarà abbastanza alto da impedire le migrazioni. La lettera è spuntata fuori martedì pomeriggio.

Da palazzo Chigi non c’era stata replica. Che è per l’appunto arrivata in queste ore: via libera ai muri antimigranti. Visto che i nostri confini sono per lo più marittimi, vuol dire attrezzarsi per impedire alle imbarcazioni dei migranti di attraversare il Mediterraneo che divide l’Africa dall’Italia. Praticamente una strage. Indiscrezioni dicono che palazzo Chigi avrebbe inserito nel dossier l’opzione di “misure operative militari in mare”. Navi europee, ovviamente, come già era nella missione Sophia che è stata ritirata perché nei fatti inutile (anzi, un pullfactor perché anche le navi militari sono costretta a salvare naufraghi) e non è mai diventata quel “blocco navale” di cui spesso ha vagheggiato la premier. Sarà l’immigrazione il terreno dove l’Italia pensa di farsi rispettare dopo l’onta dell’esclusione dai tavoli che contano? Si spera di no, ovviamente.

Più flessibilità sui fondi Ue?
Magre soddisfazioni dovrebbero arrivare dal dossier economico che deve contenere la risposta all’Inflation Reduction Act americano. Quello per cui sono andati in missione a Washington i ministri tedeschi e francesi. Ma non l’Italia. Palazzo Chigi chiede un Fondo europeo sovrano a cui i 27 possono accedere, con determinate condizioni, nei momenti di crisi come questo. La Francia era abbastanza d’accordo. La Germania no che invece punta sulle maglie larghe agli aiuti di Stato, quelli che Scholz ha già pianificato per un valore di 300 miliardi in tre anni e che l’Italia non può avere perché troppo indebitata.

Potremmo portare a casa, in cambio, un po’ di flessibilità sull’uso dei fondi di coesione europei (che non riusciamo a spendere) e sugli obiettivi del Pnrr. La cui realizzazione dovrebbe però restare imperativa entro il 2026. E anche questa non è una buona notizia per noi. È chiaro che per “giocare” queste partite in modo serio e produttivo occorre un governo rispettato e affidabile. Forse è stato troppo impulsiva la reazione di Meloni ieri mattina. In questi casi la diplomazia suggerisce di ignorare e rinviare ad altre sedi i chiarimenti. E certo non aiuta, sul tema dell’affidabilità, una maggioranza che ancora una volta si fa beffe della legge sulla concorrenza, un milestone del Pnrr, e concede una proroga di un anno alla lobby dei balneari.

E alza le barricate sulla normativa delle case green approvata ieri in commissione al Parlamento Ue. Ancora una volta, una norma non sbagliata in sé ma su cui è certamente necessario per l’Italia avviare una trattativa chiara e specifica. Adulta. E non da bambini che urlano e finiscono nell’angolo.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.