La battuta che circola sempre di più fra i valutatori militari di una parte e dell’altra, è cinica e realistica: le guerre sostenibili senza finali catastrofici funzionano come le Olimpiadi. Si stabiliscono i record, si valutano i rapporti fra costi e benefici e si vede qual è il genere di essere umano adatto a combattere per lo più sugli schermi, con vocazioni alla trasformazione immediata fra immagini e battaglia reale per consentire il progetto psicofisico delle nuove leve. Il ghiaccio comincia a sciogliersi ma il fango fa slittare i cingoli. Entro due mesi macchine ed esseri umani torneranno a scontrarsi ma non più come un anno fa perché in un anno tutto è cambiato.

È cambiata anche la forma di alleanza che fino a due mesi fa unificava l’Occidente che aveva deciso di battersi al fianco dell’Ucraina con un unico limite: non entrare “boots on the ground” sul campo di battaglia nel quale possono venire alle mani soltanto ucraini russi, mercenari ceceni, battaglioni di ex detenuti ergastolani arruolati da Mosca e dall’altra parte soldati ombra affluiti di spontanea volontà e come addestratori dal Regno Unito e dall’ex impero britannico, compresi i tiratori scelti canadesi e i sergenti maggiori più efficienti delle forze armate australiane e neozelandesi. Ma il paventato attacco o ingresso di truppe regolari dei singoli paesi della Nato come polacchi rumeni francesi, inglesi, olandesi, gli italiani, spagnoli per non dire degli esterni sia alla Nato che all’Unione europea Svezia e Finlandia, non c’è stato e non ci sarà salvo lo sciagurato caso di una guerra totale con armi atomiche. Eppure, l’alleanza occidentale non è affatto compatta né per gli obiettivi che intende perseguire né per gli strumenti e la divisione dei costi.

Il presidente Joe Biden ha letto un discorso sullo stato dell’unione da tempi di guerra: forte appello a sentimenti di una possibile, anzi necessaria unità anche con i repubblicani metà dei quali però sta con Putin. È un punto per noi europei poco comprensibile, nonché nascosto nelle cronache. Malgrado le apparenze, il confronto è piuttosto semplice e nei think tank della destra repubblicana è tornato di moda rievocare quel che successe a Versailles un secolo fa quando la Grande Guerra fu vinta grazie agli americani guidati da Wilson, mentre la maggior parte del Paese non voleva saperne di andare a combattere la Grande Guerra in Europa per salvare dalla catastrofe i quasi sconfitti inglesi e francesi, per non dire degli italiani, terrorizzati all’idea di importare da quei pantani insanguinati i germi della rivoluzione che serpeggiava sotto il coperchio degli antichi Imperi.

E adesso, si chiedono nel 2023, per quale motivo si dovrebbe rischiare di fare la guerra all’unico capo di Stato che è anche un uomo d’ordine come Vladimir Putin che vedono come il campione dei valori eterni bianchi del suo Paese e che dimostra di voler combattere per un mondo tradizionalista in cui l’omosessualità è punita con la galera, il saluto alla bandiera sia obbligatorio al mattino nelle scuole e che considera irrinunciabili i valori religiosi e quelli della famiglia? Il loro campione americano è Donald Trump, il quale considera l’Ucraina un Paese inguaribilmente corrotto, anche perché conosce molte delle relazioni d’affari di suo figlio Hunter Biden che ha fatto fortuna in quel Paese. Donald Trump che persegue imperterrito una politica di isolazionismo degli Stati Uniti giura di non voler far posare un un solo stivale in terra straniera ad alcun soldato americano nel mondo.

E, peggio, ancora considera l’Europa occidentale come il giusto premio per la Russia e la giusta punizione per Bruxelles il dessert dell’orso russo: questi occidentali che secondo Trump non hanno fatto altro che sfruttare la precipitosa visita del presidente Volodymyr Zelensky a Londra e poi a Parigi è sicuramente frutto di una paura: quella di uno spaccamento e quindi spacchettamento del fronte Occidentale che lasci l’Ucraina nel giro di qualche mese senza altra alternativa che proporre alla Russia un premio per l’invasione e dunque uno smembramento dell’Ucraina in una misura che dipenderà dallo stato delle avanzate sul terreno. Si vedrà a primavera man mano che arrivano nuove armi: i nuovi sistemi di difesa aerea antimissile e i carri armati Abrahams americani (ancora da costruire e solo nella simbolica cifra di 31 pezzi) e un’ottantina scarsa di carri Leopard di vecchia e nuova generazioni, nulla di strabiliante.

A Londra, Zelensky vuole esser certo che il Regno Unito mantenga il proposito di non lasciar vincere la Russia per una questione di principio. A Parigi, Zelensky avrà davanti un Macron bifronte perché il presidente francese, unito con la Polonia, la Romania e ad intermittenza con la Germania (incline a giocare su più tavoli pur di salvaguardare le proprie esigenze energetiche su cui fa conto anche l’economia italiana che lavora per l’indotto tedesco) e infine con Svezia e Finlandia che pur non facendo parte dell’Europa politica e della Nato, agiscono con la massima decisione per ottenere la sconfitta russa oggi. e vivere in pace domani senza l’incubo di altre fraterne invasioni come è accatto nel corso di un secolo.

Macron è il loro leader politico di riferimento perché la politica francese sta scommettendo su una brutalizzazione dell’uso delle armi in campo perché non punterebbe a trattare una pace di spartizione con Putin, ma vorrebbe la caduta politica di Putin e l’avvento a Mosca di una cordata filoeuropea. Dunque. mentre Biden punta a una lenta, lunga e paziente mirata a sfiancare Putin per ridurlo a miti consigli e lasciare l’osso ucraino senza ulteriori tragedie e senza pretendere il giudizio universale a Mosca, Parigi punta proprio al giudizio universale e sogna la spallata militare. Ogni volta che gli americani dicono di no agli ucraini quando chiedono armi a lunga gittata o tali di far pendere il piatto dalla loro parte, ecco che regolarmente si fa avanti Macron che si rivolge a Kiev con il linguaggio inverso: missili a lunga gittata? E perché no? Sistemi di difesa integrale antiaerea antimissile? Se ne può parlare.

Il Regno Unito ha mantenuto una posizione simile a quella dei democratici americani ma che può anche andarsene per conto suo verso obiettivi strategici studiati nell’altro edificio sulle rive del Tamigi. Washington punta a far ritirare Putin ma senza strapazzarlo troppo e senza mettere in crisi l’unità politica della Federazione russa così sbullonata dal crollo dell’Unione sovietica da aver smarrito sia la propria forte identità occidentale con l’antico vezzo della francofonia degli intellettuali di Corte, sia l’identità asiatica che negli ultimi decenni anche se isolata da quella mongola e cinese e sempre più rissosa con il suo versante giapponese per la disputa sulle estreme isole piatte del Pacifico fino a Port Arthur.

Il Giappone ha ormai deciso per il riarmo e lo sta facendo in fretta e furia tecnologica in grado di competere sia con quella americana che cinese. Le grandi fabbriche di armi, come la Boeing che da decenni studia l’uniforme mimetica elettronica connessa via computer e onde radio più efficace nel futuro terrestre e spaziale, stanno traendo bilanci di un conflitto cher si sta avviando contemporaneamente e contraddittoriamente. sia verso una soluzione politica che può dipendere soltanto da quanto l’Ucraina è disposta a concedere tenendo conto delle armi reali di cui disporrà, sia due possibili e alternative soluzioni belliche: quella che salva la faccia di Putin (ipotesi americana) che quella in cui Putin sparisce dalla scena favorendo la nascita di un nuovo Stato russo orientato ad orbitare intorno all’Unione Europea, secondo l’antico sogno sia gollista che di Gorbaciov in vista della “Eurss” evocata dal dissidente Vladimir Bukowski, in cui la parte russa mette l’energia mentre l’Europa produce tecnologia autonomamente e in concorrenza con gli Stati Uniti, come sognava Charles de Gaulle e buona parte della sinistra italiana, come anche della destra.

Avatar photo

Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.