Il cancelliere tedesco, non più riluttante, viene ricondotto da Biden all’ordine e alla disciplina. L’impatto che avranno le nuove armi teutoniche nelle trincee ucraine è ancora tutto da misurare. La rilevanza politica complessiva della sottomissione di Berlino è invece già ora sondabile. Il riallineamento della Germania, costretta a marciare sotto le insegne intransigenti della Nato, muta lo scenario politico che fa da contorno alla guerra lunga di attrito. Più che l’indistruttibile carro armato tedesco, spedito con una certa parsimonia al fronte orientale, la Russia deve forse temere la ritrovata compattezza del blocco euroatlantico.

L’unità dell’occidente c’è, non si sa per cosa. L’intera Europa all’unisono si ritrova oggi alle dipendenze della strategia americana, che detta la linea sulla prosecuzione della guerra con una determinazione irresistibile. Sembrava che Scholz rintuzzasse, con i sondaggi favorevoli a fargli da gradito supporto, le parole di dissenso esplicitate a più riprese dagli stessi suoi alleati di governo, i liberali e i verdi. Questi ultimi sono peraltro i più bellicisti di tutti, al punto da far perdere le staffe anche al paziente teorico dell’agire comunicativo, Jürgen Habermas. Neanche le sparute manifestazioni di piazza, che invocavano con determinazione etica e però un po’ macabra la concessione dei carri armati all’Ucraina, lo avevano impensierito nella sua sorniona capacità di temporeggiare. Le ferme insistenze dell’America, l’isolamento nella Nato, le divisioni nella sua coalizione semaforo, hanno però alla fine indotto il cancelliere rosso alla disciplina.

L’assenza di una qualche flebile voce autonoma dell’Europa nella gestione delle conseguenze del conflitto si presenta così come un dato ormai acquisito. Ci aveva provato Macron a insistere sul tasto della politica e della diplomazia, ma alla fine il sentiero si è interrotto. I suoi inviti a non umiliare troppo Putin si sono dispersi come richiami rimasti inascoltati. Il governo di sinistra spagnolo è piuttosto afono, e comunque non ha sinora brillato per una incisiva iniziativa nella politica estera in un tempo di guerra. Senza una significativa compattezza nella maggioranza, privo di ogni minima capacità di interlocuzione con i partner europei, Scholz fa due passi indietro, dopo averne fatto uno e mezzo in avanti. Un bel balzo strategico lo fece senza dubbio poco tempo fa. Infischiandosene del mormorio di mezzo governo, delle chiacchiere dei media, della voce severa dell’America, egli volò in Cina accompagnato dai poteri economici forti del capitalismo renano.

Il suo viaggio lampo, in nome di sua maestà gli affari, e del sacro interesse nazionale, apriva uno spiraglio per il riconoscimento di una prospettiva orientata verso i pilastri di un mondo multipolare. In tal senso, la sua toccata e fuga a Pechino venne ben accolta dalla diplomazia cinese che esaltò il razionalismo pragmatico del cancelliere di una “Germania che svolge un ruolo fondamentale nella governance globale e nelle relazioni bilaterali”. Anche l’intervista di Scholz apparsa su Foreign Affairs sembrava sfornare argomenti solidi per tracciare un interessante smarcamento dall’ortodossia atlantica e spingersi in direzione di uno spirito di cooperazione tra le regioni del mondo. Il cancelliere spezzava ogni nostalgia unipolare tesa verso la restaurazione dell’Impero a stelle e strisce. Evocando uno “Zeitenwende”, ossia un mutamento epocale delle relazioni internazionali determinato dall’ascesa di nuove potenze economiche e politiche, il cancelliere si scagliava contro i soldati della nuova polarizzazione.

Le recinzioni protezioniste, il ritorno ai confini, spezzano pericolosamente la catena del valore globale con una de-globalizzazione dagli esiti imprevedibili e comunque costosi. Il cosiddetto “disaccoppiamento”, o ritorno alla logica di un duro confronto tra blocchi antagonisti, determina la rottura degli spazi di integrazione economica raggiunti con la Cina (diventata ormai anche la seconda potenza mondiale nella produzione di mezzi di distruzione, destinandovi 252 miliardi di dollari, pari all’1,7% del Pil, un terzo degli Stati Uniti). Questa fuga dalla cooperazione commerciale e dalla governance multipolare irrigidisce le relazioni internazionali e penalizza gli interessi economici della Germania.

Anche un’economia come quella italiana, che nelle esportazioni, e non certo nella domanda interna, ha il suo punto di forza competitivo, dovrebbe avvertire i pruriti susseguenti all’accentuazione della contesa militare in oriente. La dottrina delle relazioni internazionali sostenuta da Scholz sembrava postulare, anche per dei prosaici interessi monetari, uno spirito di cooperazione, cenni di multipolarismo in un mondo post-americano. Il pensiero politico di Berlino esce però fortemente ridimensionato dopo il segno di obbedienza esibito dinanzi agli imperativi degli Usa. A Washington si pensa che una potenza che destina alla spesa militare una somma che è di almeno 12 volte superiore a quella russa (e che raggiunge circa il 40% dello sperpero mondiale complessivo, pari a 2,1 miliardi di dollari) possa non rischiare molto da un inasprimento della guerra di movimento nella vecchia Europa. A sorreggere questa svolta di primavera, nel segno della tradizionale contesa di annientamento, sono i banali conti e anche la distanza oceanica dal continente.

La capacità di effettiva belligeranza delle truppe di Mosca non dovrebbe essere infinita. La Russia destina per le sue spese nelle forze armate “solo” 65,9 miliardi di dollari (pari al 4,1% del Pil di una potenza economicamente fragile), addirittura meno del pugnace Regno Unito (68,4 miliardi e 2,2% del Pil). E poco più della Germania (56 miliardi, appena l’1,3% del Pil) e della Francia (56,6 miliardi, corrispondenti all’1,9% del Pil). I tre paesi europei più ricchi investono per la difesa ben 181 miliardi complessivi, quasi il triplo del denaro speso dal mostro russo, che pure dovrebbe costituire la temibile minaccia per la custodia dei sacri confini del vecchio continente. Se alle somme ingenti stanziate da questi colossi economici e militari si aggiungono anche le spese non indifferenti sostenute dall’Italia (32 miliardi, 1,5% del Pil), dalla Norvegia (8 miliardi), dalla Svezia (3 miliardi), dalla Danimarca (4 miliardi), dalla Polonia (che, nei prossimi anni, punta addirittura ai 30 miliardi, raggiungendo così il 5% del Pil), dalla Spagna (con “la finanziaria più militarista di sempre” si prevede un incremento del 26% del budget della difesa, che da meno di 10 sale a 12,8 miliardi di euro, avvicinandosi al 2% del Pil), si percepisce con trasparenza l’estrema disparità delle forze in campo.

Alla luce della sproporzione delle forze economico-militari in campo (e del tutto trascurata dai russi, che puntavano su una guerra lampo), si può anche comprendere che serpeggi la volontà di una resa dei conti definitiva con la potenza glaciale di Putin. Una simile idea di supremazia può persino risultare tutt’altro che peregrina dal punto di vista strettamente militare. È dal punto di vista economico, e soprattutto politico, che i conti però non tornano. I sondaggi che rivelano una ostilità dell’opinione pubblica di Germania, Francia e Italia verso il sostegno in armi a Kiev registrano le preoccupazioni soprattutto economiche dei paesi della vecchia Europa. La traduzione politica della questione guerra–pace non si è ancora presentata. Rimane una ostilità sorda, relegata al momento solo nella sfera impolitica. La vittoria militare sul terreno convenzionale non è impossibile per l’occidente, escludendo quindi l’ipotesi apocalittica di una escalation atomica.

L’Ucraina è diventata una grande potenza, di fatto affiliata alla Nato, e ha sorpreso solo all’inizio, quando i termini del conflitto erano ignoti, la sua grande capacità di resistenza ad una Russia che arranca come una potenza estremamente debole al cospetto delle soverchianti potenze filo-ucraine. Grazie ai sostegni americani per la cosiddetta “interoperabilità”, agli aiuti strategici dei consiglieri militari polacchi, americani e inglesi, con la capacità di individuare chirurgicamente i generali nemici da colpire, alle risorse dell’intelligence, e anche all’esperienza acquisita sin dalla partecipazione alla coalizione dei volenterosi che ha invaso l’Iraq, Kiev non è più il paese di cartapesta con l’esercito fatiscente del pre-2014. I costi di una vittoria a tutto campo, con l’umiliazione di Putin temuta da Macron, non sono calcolabili.

Una Russia esposta alla frantumazione dopo lo scacco strategico o viene ricondotta sotto lo stivale della Nato, oppure diventa una mina vagante. Acefala, assediata ai confini dallo smacco di un allargamento delle armate occidentali, alle prese con un sordo spirito di vendetta e una volontà di rivalsa, che potrebbe contagiare anche le aree slave ora entrate in Europa, Mosca diventerebbe l’epicentro del nuovo disordine mondiale.