Ha creato scompiglio, nel comitato costituente del Pd, una citazione di Lenin, seppur indiretta. Al riecheggiare di un demone del ’900, i commentatori hanno denunciato un cedimento alla demagogia grillina. Eppure, sul piano teorico, il più radicale censore del populismo è stato proprio il Lenin “sociologo”, cantore della crescita e del mercato contro ogni romanticismo economico.

Al centro del dibattito c’è il Manifesto dei valori del 2007. C’è, nel Pd, chi lo ritiene una icona intoccabile, altri invece lo scrutano come uno sviamento identitario cui rimediare. Il problema vero, per chi voglia rilanciare il partito, è reinventare un’alternativa alla spinta del trentennio che, come scrive Michelangelo Bovero nel suo libro (Salus Mundi, Castelvecchi, p. 90), «ha instaurato una sorta di rule of capital al posto della rule of law». Al lungo ciclo della “distruzione creatrice”, che ha alleggerito il pubblico per restituire i margini di profitto al capitale, la sinistra deve rispondere con un nuovo equilibrio tra diritti e mercato.

Le pagine del documento del 2007 contengono una lettura della società che precede la crisi del capitalismo globale. Senza aderire all’ideologia della “fine della storia” (“Tutto ci dice che la storia non è finita. Il mondo in cui viviamo appare sempre più come una trama complessa di relazioni in continua evoluzione”), il Manifesto assume che l’equilibrio tra pubblico e privato è ancora sbilanciato a vantaggio del governo politico, che quindi merita una ulteriore potatura. La “liberalizzazione della società” viene invocata come una semplificazione per abbattere i troppi corporativismi circolanti. E però la tesi per cui “un mercato aperto è strumento essenziale per la crescita” non è certo un fulmine a ciel sereno nel dibattito politico-culturale d’area. L’idea del centrosinistra sposata nel manifesto valoriale, infatti, continua ad essere quella dei primi anni 90. Su impulso della ex sinistra Dc (Prodi, Andreatta), anche i post-comunisti (ben prima della “peste” renziana) approdarono allora ad una infatuazione mercatista.

Nel 1989 Occhetto si schierò a favore dell’abbandono della vecchia economia mista, salutando il mercato come “insostituibile fattore propulsivo”. Nel 1994 il Pds assunse le privatizzazioni come “occasione” di modernizzazione. Poiché “non esistono alternative all’economia di mercato”, la Quercia esortava lo Stato a fare “un passo indietro come gestore” per limitarsi a operare come autorità che sforna “le regole del mercato”. Nel testo del 2007 confluisce, dunque, un’antica mutazione delle culture politiche della sinistra. Il testo propone la seguente diagnosi della condizione italiana: «Una gran parte degli assetti sociali e delle strutture di governo dello Stato e dell’economia italiani è diventata anacronistica e non è più in grado di rispondere alle nuove sfide della mondializzazione». Per rimediare all’arretratezza delle strutture produttive e alla marginalizzazione delle micro imprese entro la nuova divisione internazionale del lavoro, che richiede grandi investimenti di capitale, occorre completare politiche di smantellamento del governo pubblico dell’economia. Le semplificazioni, le politiche di liberalizzazione sono strumenti “per mantenere la concorrenza e per creare le condizioni di contesto e di convenienza utili a promuovere innovazione e qualità”. Questa politica per la concorrenza ha il limite di intervenire, con impulsi competitivi esterni, in un sistema assunto in maniera statica.

Manca la forza più dinamica volta a tracciare un nuovo disegno politico per il rilancio dell’economia e dell’industria italiana. Nella fiducia verso gli operatori di mercato di un sistema in stagnazione, il Manifesto del Pd ritiene che «compito dello Stato non è interferire nelle attività economiche, ma fissare le regole per il buon funzionamento del mercato». La dottrina della “non interferenza dello Stato” assume l’impresa, sempre più a piccole e medie dimensioni, come l’attore in grado di determinare la crescita solo se lasciato libero nel dare sfogo ai suoi spiriti selvaggi. Che bastino le sole regole per recuperare la capacità produttiva significa, però, rinunciare alla politica per orientare i fini, per anticipare le traiettorie dello sviluppo capitalistico e orientarlo secondo aspettative sociali. Il dimagrimento dello Stato, con il ripiegamento delle sue funzioni di gestione a favore dell’assunzione di compiti di regolazione (“L’apertura dei mercati è positiva. Ma i mercati devono essere regolati”), si è rivelato insufficiente per la modernizzazione del capitalismo italiano.

La crisi ha sollecitato cenni di “sovranismo economico” (ruolo di Cassa depositi e prestiti, azionariato statale nell’acciaio, nelle fibre e nei voli). Il nuovo interventismo, in quanto privo di una visione strategica, lascia scoperto il tema delle politiche industriali, degli investimenti di più lungo periodo. Che serva un ritorno dello Stato lo riconosce lo stesso Prodi, dinanzi ai costi dell’ideologia del pubblico come fattore di irrazionalità ed elemento di disturbo. Senza una riproposizione del ruolo strategico statale in materie qualitative, è per lui impossibile una sopravvivenza della sovranità nazionale. Il ritorno del pubblico non può certo comportare la riapertura di sentieri interrotti. La lunga stagnazione italiana esige, infatti, una capacità di produrre sviluppo. Il puro Stato-regolatore (di un modello di sviluppo affidato al solo mercato) non ha dato una risposta efficace al pericolo, che anche il Manifesto del 2007 denuncia, di «un’Italia che si declassi nel mondo e si divida tra aree forti, integrate in Europa, ed aree marginali e dipendenti; tra ceti capaci di competere con successo nel mondo globalizzato e vasti strati sociali in sofferenza, di nuovo in lotta con la povertà».

La de-crescita come condizione sistemica è all’origine delle tante esclusioni sociali e territoriali. Al suo perimetro non è estranea la comparsa di una “demagogia populistica”, che si impone in uno spazio politico alienato perché “le disuguaglianze stanno aumentando”. Lo scritto del 2007 non nasconde l’apparizione di un’economia fondata “su lavori precari e su vite di scarto”. Parla anche di “sfruttamento indecente di un lavoratore”. Il rimedio evocato contro “la riduzione del lavoro a merce precaria”, però, non è quello di una lotta per l’eguaglianza entro una nuova conflittualità capitale-lavoro, propedeutica alla crescita. Si invoca, piuttosto, “equità”. Con questo concetto ambiguo, passano una visione aconflittuale del mondo e una pratica di aggiustamento paternalistico dei disagi. La prospettiva del 2007 è quella dell’offerta di “uguali opportunità” per sbloccare “una società chiusa e castale”. Nello schema aperto-chiuso, equità-vita di scarto, merito-protezione non c’è spazio per il conflitto e per la forma partito. Non è casuale, nel documento, una certa civetteria verso il montante clima anti-casta dell’epoca (bisogna «ridurre i privilegi impropri della dirigenza politica e la elefantiasi degli organismi istituzionali»).

Il Manifesto invoca una riduzione dello spazio della politica organizzata. Per questo scandisce che «i grandi partiti che dominarono le società industriali del Novecento appaiono ormai anacronistici». Il partito leggero del leader convive con una ubriacatura sulle virtù del bipolarismo meccanico (“una democrazia forte, in grado di decidere”) che il sistema elettorale Porcellum si illudeva di aver blindato. Mentre il Pd si inebriava nel mito della democrazia decidente (“una democrazia competitiva, imperniata sulla sovranità del cittadino elettore, arbitro della scelta di governo”), segnali di usura storica già annunciavano una vera crisi organica (economico-sociale, politica, culturale). Altri partiti in Europa sono stati travolti. Il Pd ha la fortuna di sopravvivere, a condizione di aggiustare il profilo identitario-organizzativo. Ma quale è la filosofia del Manifesto del 2007? Non si tratta di una pura e semplice ideologia liberista che si è insinuata a sinistra. “Le società non possono ridursi a società di mercato, dove ciò che definisce i rapporti tra le persone è solo lo scambio economico”. Sul piano teorico, il documento ha i limiti di un testo di compromesso tra storie molteplici. Tante critiche di oggi non tengono conto che i suoi limiti di scrittura sono riconducibili all’anomalia di un partito-federazione di culture eterogenee, che concordano una fusione fredda per cavalcare i tempi del bipolarismo.

Il concetto chiave verso cui convergono le anime plurali del Pd è quello di “società giusta”. La formula, utlizzata più volte nel testo, risale a Salvatore Veca, che, ricorrendovi, recupera i cardini della filosofia politica di Rawls. Si tratta di un’interpretazione democratica, non socialista, della modernità. Essa cerca di conciliare un’attenzione alle “differenze” e alle diseguaglianze con l’accettazione del mercato e dei suoi impulsi alla crescita e all’autonomia individuale. Andare oltre quella identità fragile è oggi possibile. L’area liberal del Pd, nel suo documento apparso sul Foglio, si dichiara favorevole ad una nuova impostazione identitaria nel solco del “laburismo”. La componente di sinistra rivendica, invece, un’opzione più netta nel solco del “socialismo”. Un punto di intersezione ideologica tra le due anime non è poi così lontano. Del Manifesto occorre comunque raccogliere una sfida: “La priorità è far ripartire lo sviluppo del Paese, rilanciare una crescita sostenibile e di qualità, quella che è mancata negli ultimi anni”.

La lunga stagnazione è il vero buco nero della democrazia italiana che evoca uno scenario sudamericano, con la destra che solletica un capitalismo straccione – specializzato nell’arte di arrangiarsi, con il sabotaggio del Pos e la mistica del contante – e un’opposizione conquistata dall’inclinazione pauperistica di chi sogna la redistribuzione assistita nel tempo della (infelice) de-crescita. Magari, come invece temono “i libberali” (così li chiama Ferrara), ci fosse nel Pd qualcuno con letture di Lenin o Marx alle spalle. Non avrebbe alcuna esitazione ad avviare una critica pratica e teorica dei nuovi “amici del popolo”. Nell’ostilità allo sviluppo, nel rigetto di una moderna centralità del lavoro, i populismi consegnano il paese alla più cupa reazione. Dinanzi ai cinguettii dei giornalisti vernacolari, scandalizzati dalla citazione dell’undicesima tesi su Feuerbach, andrebbe semplicemente rammentato che dal 1989 la Spd, nella conferenza programmatica, include tra le proprie radici ideali “la dottrina storica e sociologica di Marx”.