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Il piano di Sinwar, leader di Hamas: fuggire in Iran con gli ostaggi israeliani
Il corridoio Filadelfia è un altro budello buono a essere percorso in un senso e nell’altro da persone e cose che hanno ucciso, che uccidono e uccideranno ancora. Evidentemente gli ostaggi israeliani non sono così meritevoli
Gilad Shalit aveva vent’anni quando fu catturato, vicino al confine di Gaza, da miliziani palestinesi che lo tennero sequestrato per cinque anni. Fu liberato, dopo tutto quel tempo, in base a un accordo che prevedeva il rilascio di circa mille detenuti palestinesi. Uno di questi si sarebbe reso responsabile della pianificazione e attuazione del più grave massacro di ebrei dal tempo della Shoah, il pogrom del 7 ottobre dell’anno scorso. Si chiamava Yahya Sinwar.
Bisognerebbe ricordare quella storia, peraltro nemmeno troppo risalente, quando si rimprovera a Israele di non accogliere con buona grazia la richiesta di liberazione di mille, duemila, persino tremila detenuti palestinesi per avere indietro, non necessariamente vivi, gli israeliani deportati dai miliziani e dai civili palestinesi che, agli ordini di Sinwar, hanno perpetrato i massacri del Sabato Nero. Poi (è notizia di questi giorni) chissà se è vero che Sinwar stava programmando di darsela a gambe, portandosi dietro un po’ di quegli ostaggi e adoperando il famigerato “Philadelphi corridor”, vale a dire la zona di passaggio da cui entravano le armi usate per massacrare i civili israeliani e per trasformare le scuole, le moschee le chiese e gli ospedali di Gaza in altrettanti bunker della “resistenza” palestinese.
Se pure non fosse vero che Sinwar aveva in testa di fuggire in quel modo per andarsene in Iran – lui e gli ostaggi, da affidare alle cure della democrazia delle impiccagioni – resterebbe che non è un’invenzione di Bibi né di qualche oltranzista del suo governo il pericolo che quel corridoio possa prestarsi, se non presidiato, a operazioni capaci di danni incalcolabili. Naturalmente è legittimo ritenere che si possa, o persino si debba, affrontare il rischio – e pretendere che Israele lo affronti – in omaggio a prospettive immediatamente vantaggiose sulla soluzione del conflitto e sul rilascio degli ostaggi. Ma a parte il fatto che queste prospettive non ci sono, e rappresentano semmai riposanti vagheggiamenti, occorre non far finta che quel rischio sia inesistente e occorre non far finta che correrlo o no sia dopotutto indifferente.
Perché non si tratta di tenere o cedere un’area per l’edificazione di un centro anziani o di un supermercato, né lì sotto avevano realizzato palestre o sale cinematografiche: si tratta di quel che si sa, cioè di un altro budello buono a essere percorso in un senso e nell’altro da persone e cose che hanno ucciso, che uccidono e uccideranno ancora. Una ragione specifica e drammaticamente significativa spiega perché, diffusamente, si ritenga che Israele dovrebbe senza tante storie mollare quel corridoio, e dare disponibilità alle più disinibite condizioni di “tregua”, peraltro sempre disattese dalla stessa controparte. Ed è questa: che sono ebrei gli ostaggi cui l’altro giorno Hamas sparava nella testa; e che sarebbero ancora ebrei gli assassinati dopo le concessioni cui Israele dovrebbe rendersi disponibile a cuor leggero. Vite non così meritevoli, per lo standard comune.
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