L'anniversario
Proseguire la battaglia di Marco Biagi per un mercato del lavoro giusto: non smetteremo di onorare il suo ricordo

Ventitré anni fa le Brigate Rosse assassinarono Marco Biagi, giuslavorista instancabile e riformista per vocazione, cattolico e socialista per fede e convinzione. La nostra amicizia nacque subito, quando, su incarico del Ministero del Lavoro, mi convocò per discutere la riforma della prima legge sul lavoro interinale. Quella normativa, già in vigore nel resto d’Europa in base alle direttive UE, era stata concepita in Italia in modo illogico: invece di essere applicabile ovunque, escludeva proprio quei settori—come l’agricoltura e l’edilizia—dove il lavoro per natura è discontinuo e spesso esposto all’irregolarità e allo sfruttamento.
Era l’ennesima dimostrazione della cecità di un certo conservatorismo ideologico: una legge nata per dare stabilità, diritti e buoni salari a chi altrimenti sarebbe rimasto preda del lavoro nero e del caporalato, veniva osteggiata in nome di un anacronistico immobilismo. Mi colpì subito la schiettezza con cui Marco spiegava perché quella legge andasse cambiata. Dava finalmente una risposta ai dubbi che avevo maturato anni prima, quando ero segretario nazionale della categoria edile della CISL. Biagi sapeva bene che l’Italia era già in grave ritardo rispetto ai Paesi industrializzati e che la riforma del mercato del lavoro non era più rinviabile. Da questa consapevolezza nacque una collaborazione informale tra noi e altri riformisti, mossi dallo stesso obiettivo.
Si aprì così un dibattito cruciale sulle politiche attive del lavoro: dalla regolamentazione del collocamento privato allo sviluppo del lavoro interinale, dalla disciplina dei contratti a termine alle nuove tutele per i collaboratori coordinati e continuativi (che divennero co.co.pro.), fino alla formazione continua finanziata dallo 0,30% dei contributi destinati agli enti bilaterali. Insieme a Maurizio Sacconi, allora sottosegretario al Lavoro, e Stefano Parisi, direttore generale di Confindustria, si creò un’importante arena di confronto libero e costruttivo. Ma le resistenze furono feroci. Il Libro Bianco di Marco Biagi sulle riforme del lavoro venne bollato come “limaccioso” e condannato da chi non voleva cambiare nulla. Poi arrivarono i boia brigatisti, a spezzare brutalmente la sua vita.
Ancora oggi, la sua visione continua a essere osteggiata. Le riforme che si ispirano al suo pensiero—flessibilità tutelata e ben retribuita, salario legato alla produttività, partecipazione dei lavoratori alle scelte aziendali, formazione come garanzia primaria dell’occupazione e di un buon salario—incontrano la stessa opposizione ideologica di allora. Il referendum per l’abrogazione del Jobs Act ne è la prova: secondo alcuni, il lavoro non è reso debole dalla mancanza di politiche di sviluppo, dall’eccessiva pressione fiscale, da un sistema educativo inadeguato o da una scarsa correlazione tra salario e produttività, ma semplicemente dal tentativo di riformare un impianto normativo ormai superato.
Eppure, onorare Marco Biagi significa proseguire la sua battaglia per un mercato del lavoro moderno, dinamico e giusto. E noi non smetteremo di farlo.
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