Chi approda a sinistra è un redento, chi se ne allontana un reprobo
Marco Biagi, a 23 anni dall’assassinio c’è chi non ha imparato la lezione: il lavoro flessibile e il ‘tradimento’ alla sinistra
Dirigenti politici e sindacali di sinistra lo accusarono ferocemente di essere l’inventore della precarietà In realtà ha trasformato il mondo del lavoro, ma Landini e Schlein vogliono riportare indietro la storia

Il 19 marzo del 2002 veniva assassinato Marco Biagi. Un commando delle nuove Brigate rosse (gli stessi terroristi che anni prima avevano ucciso a Roma Massimo D’Antona) lo attese sotto casa e lo finì a colpi di pistola. Negli ultimi mesi di vita, il mio amico era divenuto “un uomo da bruciare”, il giuslavorista a cui il governo Berlusconi aveva affidato il compito di coordinare un gruppo di lavoro con l’incarico di formulare in un Libro Bianco una riforma del mercato del lavoro, che veniva giudicata dalla sinistra politica e sindacale lesiva dei più sacrosanti diritti dei lavoratori. La ferocia delle critiche fu smorzata in seguito alla sua uccisione, perché un martire merita sempre rispetto. Ma, nel retropensiero di troppi dirigenti politici e sindacali e di operatori del diritto, Biagi rimane l’inventore della precarietà, come se la Luna esistesse solo perché qualcuno la indica col dito.
Biagi, la flessibilità del lavoro, il Jobs Act e il referendum
I referendum della Cgil contro il Jobs Act non riguardano norme della legge Biagi, ma norme che – come disse a suo tempo Matteo Renzi – completavano 20 anni dopo il lavoro del professore bolognese, andando oltre quanto era stato in grado di fare. Marco era convinto che la flessibilità dei rapporti di lavoro fosse un’esigenza ineludibile, e che il compito del giurista fosse quello di definire delle regole a tutela del lavoratore. “Occorre prevedere – era scritto nel Libro Bianco – nuove tipologie contrattuali che abbiano la funzione di ‘ripulire’ il mercato del lavoro dall’improprio utilizzo di alcuni strumenti oggi esistenti, in funzione elusiva o frodatoria della legislazione posta a tutela del lavoro subordinato, e che, nel contempo, tengano conto delle mutate esigenze produttive e organizzative”. In un articolo pubblicato su Il Sole 24 ore del 16 novembre 2001, Biagi scriveva: “Se si vuole davvero iniziare una lotta senza quartiere al lavoro irregolare, bisogna disporre di tutti gli strumenti idonei allo scopo: per stanare gli irriducibili del lavoro nero occorrono tutte le armi, anche le più sofisticate”. Si riducono le tutele? Si domandava. Forse per gli occupati ma non per chi cerca un’occupazione.
Le accuse di ‘tradimento’
Nei confronti del lavoro del professore, le manifestazioni di dissenso erano contornate da un clima di sgradevoli riprovazioni etiche che sfociavano in una sostanziale accusa di tradimento (Marco era socialista). Un’accusa che si può sopportare solo se si possiede una grande forza morale, perché – per una certa sinistra – chi si sottrae ai vincoli dell’ideologia salvifica non ha semplicemente cambiato opinione, ma è un apostata che abbandona la vera fede. Chi approda a sinistra è un redento, chi se ne allontana un reprobo.
Il referendum 40 anni dopo la scala mobile
Biagi aveva un fermo convincimento: trovare forme regolate e regolari per l’inclusione sociale, nella consapevolezza che la pretesa di adibire chiunque a un lavoro stabile si trasformava – al di là delle intenzioni – in una preclusione, perché per divenire occupati occorre essere prima di tutto occupabili. La flessibilità “normata” costituiva il nucleo centrale del suo pensiero. Si può discutere sul contributo effettivo che il filone riformatore, da Biagi in poi, ha recato al mercato del lavoro. Una cosa però è certa: tutti i tentativi di riportare indietro la storia hanno determinato effetti nefasti sull’occupazione. Così avverrebbe anche nella sciagurata ipotesi di una vittoria dei quesiti Landini-Schlein sui quali si voterà l’8 e il 9 giugno, 40 anni dopo (9 e 10 giugno 1985) il referendum sulla scala mobile.
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