Povero Landini: lo “hanno rimasto solo” nella battaglia referendaria di primavera sui cinque quesiti che di tanta speme sono rimasti in campo. Il leader della Cgil aveva aderito, contribuendo alla raccolta di firme, al fronte delle opposizioni compatte contro la legge Calderoli sull’autonomia differenziata. In questo modo – pensava – i suoi quesiti, ai fini del raggiungimento del quorum, si sarebbero avvalsi della massa critica mobilitata nel Grande Referendum patriottico a salvaguardia dell’unità del Paese e in difesa dei poveri contro i ricchi.

Invece, con un paio di sentenze, la Corte Costituzionale non si è limitata ad impartire una lezione di tecnica legislativa al governo rimettendo in bella copia la legge, ma ha ritenuto inammissibile il ricorso alla consultazione proprio per la vaghezza dei contenuti residui. Così, la Cgil incaricata di coprire il fronte di sinistra della grande armata referendaria si è trovata a dover fare tutto da sola nell’impresa – ora divenuta impossibile – di raggiungere il quorum. Inoltre, al punto in cui stanno le cose, non si capisce più chi sia il nemico da battere. Non il governo, né la maggioranza, che non rivendicano alcuna responsabilità per le norme che la Cgil vuole abolire, tanto da non aver neppure inviato alla Consulta l’Avvocatura dello Stato per una sommaria difesa di ufficio delle norme incriminate.

In sostanza dell’esito del referendum al governo non gliene può fregar di meno, essendo nei fatti un regolamento di conti all’interno della sinistra – tra Landini e Renzi – per cancellare definitivamente l’onta del jobs act, quando, secondo il segretario della Cgil, la sinistra vendette l’anima per trenta denari. Per questi motivi anche nell’elettorato di sinistra vi sono molti non disposti a pentirsi di quanto il Pd ha fatto – in materia di lavoro – negli anni in cui è stato al governo. Come se non bastassero tutti i cambiamenti di scenario pure i giudici delle leggi, nelle motivazioni della sentenza (n.12 del 7 febbraio 2025) che ha ammesso il quesito referendario, hanno garbatamente evidenziato qualche aspetto singolare dell’iniziativa referendaria.

In primo luogo, la Corte ha voluto avvertire l’elettorato di non farsi condizionare da un malinteso, in quanto in caso di vittoria dei Sì non vi sarebbe il ripristino del leggendario articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (lo Statuto dei lavoratori), giacché il quesito referendario punta a rimuovere dall’ordinamento l’intero d.lgs. n. 23 del 2015, frutto di una discrezionale opzione di politica legislativa, senza che dalla vis abrogans possa scaturire una, preclusa, reviviscenza del quadro normativo preesistente: la disciplina dettata dal suddetto decreto legislativo si è affiancata a quella dettata dall’art. 18 statuto lavoratori e dall’art. 8 della legge n. 604 del 1966, dando così luogo a «un duplice e parallelo regime» (sentenza n. 44 del 2024).

In caso di abrogazione del dlgs n.23 (identificato con il jobs act che nell’insieme è costituito da ben otto dlgs) la disciplina uniforme del licenziamento diverrebbe quella sancita, nell’articolo 18 novellato, dalla legge n.92/2012 (la riforma Fornero del mercato del lavoro). Inoltre, quasi a difesa della propria funzione istituzionale, la Corte ha ricapitolato tutte le sentenze che negli ultimi dieci anni hanno modificato le norme del dlgs n.23/2015 recante la disciplina del contratto a tutele crescenti, come se volesse mettere in evidenza l’inutilità della abrogazione tout court degli scampoli rimasti, tanto più che – qui c’è il colpo mortale – con l’abrogazione dell’intero dlgs n.23 vi sarebbero, secondo la Corte, dei veri e propri svantaggi nella tutela dei lavoratori.

Ciò si verificherebbe nelle ipotesi del licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia o infortunio del lavoratore prima del superamento del cosiddetto periodo di comporto e in altri casi a cui, nelle disposizioni vigenti, è garantita la tutela reintegratoria “piena”, anziché quella “attenuata” prevista dall’art. 18 statuto dei lavoratori. Parimenti è di favore (e verrebbe meno) l’estensione della disciplina dettata dal d.lgs. n. 23 del 2015 (art. 9, comma 2) ai licenziamenti intimati dalle cosiddette organizzazioni di tendenza, esclusi invece dal campo di applicazione dell’art. 18 della legge n.300/1970.

Pertanto, secondo la Consulta, nel caso dell’approvazione del quesito abrogativo, il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in tutte le ipotesi di invalidità del licenziamento, perché in alcuni casi particolari si avrebbe, invece, un arretramento di tutela. Ci sarà qualche conduttore dei programmi del La 7 che oserà chiedere spiegazioni a Maurizio Landini, esibito come una Madonna pellegrina sui teleschermi, di questi inconvenienti?