Ogni tanto incontro qualche amico – ateo, irriducibilmente anticlericale – che denuncia le colpe della chiesa, le nefandezze storiche del cristianesimo, la vergogna dei papi che celebravano crociate, guerre e conquiste coloniali. Tutto vero. Eppure non posso fare a meno di pensare che queste critiche nascono dal cristianesimo stesso, dalla sua idea di giustizia non disgiunta da quella dell’amore.
Prendete Proudhon, un pensatore politico immenso, libertario e radicale, socialista e nonviolento, che aveva capito subito tutto del marxismo, eppure oggi inspiegabilmente ancora misconosciuto (per la mia generazione Proudhon resta appena “inquinato”, del tutto ingiustamente, dal cosiddetto “saggio” di Craxi pubblicato sull’Espresso nell’estate del 1978, un saggio non privo di spunti interessanti che peraltro neanche aveva scritto lui!). Ha passato la vita a criticare la alienazione prodotta dalla religione, l’ipocrisia dei credenti, il lassismo dei gesuiti, l’infedeltà della chiesa all’ideale evangelico, etc. ma pensava sempre a Dio e ha dovuto ammettere il suo debito ideale verso la Bibbia. Diffidava della carità (che non può essere imposta per legge), cui sempre preferisce la mutualità, la reciprocità (sulla quale deve fondarsi qualsiasi ordine sociale), però riconosce che il cristianesimo ha creato la fratellanza delle genti, ha portato all’abolizione della schiavitù, ha rinnovato il mondo, ed è stata «la prima delle rivoluzioni, forse la più grande» (in La proprietà è un furto).
Ho letto un interessante saggio di Henry De Lubac, gesuita, grande teologo spesso in odore di eresia e molto amato da papa Francesco, su Proudhon e il cristianesimo (Jaca Book, 1985). In verità De Lubac non approfondisce tanto i concetti (non è uno storico della filosofia) quanto ci offre una mappa utilissima della formazione culturale di Proudhon, figlio di un bottaio e di una cuoca, un “vulcanico plebeo” di provincia con il senso degli affari e l’attitudine a scrivere articoli, pamphlet, libri acuminati, etc. contro le innumerevoli forme di dispotismo (non aveva una rigorosa cultura filosofica, prendeva di qua e di là, secondo l’amico Marx non riuscì mai a capire la dialettica di Hegel pur citandola di continuo). L’idea centrale nell’opera di Proudhon è quella della giustizia: «È il mio Dio, la mia religione, il mio tutto». Così scrive: «Sentire e affermare la dignità umana, prima in quanto ci riguarda personalmente, poi nella persona del prossimo, ecco il diritto… essere pronti in ogni circostanza a prenderne la difesa, ecco la giustizia». Non solo un ideale ma un sentimento e una «forma del pensiero», nata dal principio dell’uguaglianza. Da dove proviene? Da molte fonti, da Eraclito («il vero nome di Dio è Armonia, Giustizia»), dalla tragedia di Eschilo (la “themìs”, che sorge al termine di un conflitto), dal diritto romano, da Platone (l’idea del Bene), ma soprattutto – come dicevo all’inizio – dalla Bibbia (Geremia – «Jahvé nostra giustizia» e il Vangelo).
De Lubac fa i salti mortali per conciliare l’ateo militante e “spauracchio dei credenti” Proudhon con la propria visione, insiste sulla “parzialità” e faziosità dei suoi giudizi, peraltro durissimi, sulla religione (che giustificherebbe per lui l’oppressione), su un Dio “insufficiente”(che dunque richiede l’intervento attivo dell’uomo), ma fa bene a mostrarci il debito di Proudhon verso il cristianesimo.
Proudhon riteneva che senza la “moderazione” femminile, fatta di clemenza, tolleranza, perdono, grazia, riconciliazione, misericordia, «il nostro stato giuridico non si distinguerebbe in nulla dallo stato di guerra» (in Pornocratie). De Lubac annota che qui Proudhon rivela un pregiudizio storicamente condizionato – a proposito della donna, più caritatevole ma anche con «meno energia morale» – però al tempo stesso ci offre una indicazione preziosa su come la giustizia stessa debba essere amministrata. In un’opera di occasione e di gioventù, Cèlèbration du dimanche, Proudhon, pur diffidando dell’amore cristiano per quanto ha di eccessivamente fusionale (una fusione panteistica in cui affonda la persona), e della fraternità necrofila di Robespierre («La fraternità o la morte!»), scriveva che lo scopo cui tendere è «far uscire, come un fiore dal suo stelo, la carità dalla giustizia».