Il primo significativo anniversario della morte dello scrittore di cui c’è modo d’avere pubblica memoria, il decennale – novembre 1985 – innalzava un titolo che sapeva di avvenire, forse anche speranza di continuità del suo discorso, delle sue profezie, Una vita futura, la manifestazione seppe occupare lo spazio monumentale, arcaicamente imperiale, dei Mercati di Traiano, in via IV Novembre, tra l’infilata di una piccola scalinata che lascia intravedere il Vittoriano e piazza Venezia, e il viale in salita che conduce al Quirinale, a Roma.

Nelle “stanze”, trovavi i costumi da Maria Callas indossati nei fotogrammi di Medea, esposti accanto a ceste colme di nocciole raccolte a Chia, nel bosco intorno alla torre medievale da Pasolini acquistata nel 1970 con l’intenzione dichiarata di trascorrervi la vecchiaia, coabitando magari con la famiglia di Ninetto Davoli. C’è ancora modo di ricordare la presenza di Alberto Moravia, la sua andatura d’ospite, amico, d’onore, l’andatura del parente, del congiunto, la sua compagna Carmen Llera che lo tiene per mano, e poi, elegantissimo, «regimental» nel gusto, mano in tasca, Alberto Arbasino che confabula proprio con la Betti di com’erano «certi giorni insieme a Pier Paolo», discutono di cose amate insieme e forse ormai assenti, com’era Roma al tempo di Giro a vuoto, com’era Gadda, squisito, «davvero carino» incalza lei, la vedova Pasolini, abito verde ampio come uno Zeppelin, in gran spolvero per la vernice culturale e mondana. «L’unica forza contestatrice è il passato», affermava d’altronde Pasolini. Arbasino nel suo libro Un paese senza ha scritto cose molto chiare e terse su PPP.

Sotto le mura e dunque in mezzo ai fossati di Castel Sant’Angelo, Pietro Folena, nello stesso decennale della morte dello scrittore, proprio Folena segretario dei giovani comunisti del Pci, volle che la loro festa annuale prendesse il nome, il volto e gli argomenti politici e umani di Pasolini, e perfino la proiezione dei suoi film, su tutto Accattone. Nel 1985 lo stabilimento del «Ciriola», chiatta galleggiante dipinta d’azzurro e bianco che nel film ricorre come un luogo di ritrovo obbligato, stava ancorata al suo posto, sotto il ponte con il suo corredo di angeli di pietra, sebbene fosse ormai in stato d’abbandono, casa sbilenca, rifiuto urbano, monumento ufficioso al tempo di un’altra città, di un altro fiume… Sempre lì, Giovanni Franzoni, già abate della basilica di San Paolo fuori le Mura sospeso «a divinis» per aver dichiarato il proprio voto al Pci nei primi anni Settanta, raccontò di un Pasolini polemico con i cattolici “del dissenso” a proposito del concetto di «desacralizzazione» sostenuto da questi ultimi. «Voi sbagliate», avrebbe detto, «occorre invece imporre la sacralità del tutto».

Per il ventennale – novembre 1995 – giunse da alcuni la bizzarra idea, accolta comunque volentieri da Laura Betti, di mettere la cittadina di Ciampino al centro dell’evento. Gli amici, gli ospiti, i partecipanti, accompagnati, portati fin laggiù in treno, partendo dai binari di Termini, con una vera tarda «littorina» ormai degli anni Cinquanta, messa a disposizione dalle Ferrovie dello Stato, così da rifare lo stesso tragitto che PPP affrontava ogni mattina per andare a insegnare, a Ciampino appunto, scuola media «Petrarca», dove fra i suoi allievi avrebbe avuto il futuro scrittore e sceneggiatore Vincenzo Cerami. Si era in clima di «tangentopoli», la ruota dell’inchiesta Mani pulite sembrava dovesse mutare radicalmente il costume e il paesaggio stesso del Paese, così a qualcuno venne in mente di organizzare, sempre in nome della «cara memoria» di Pasolini, una partita di calcio fra politici e magistrati. Non era forse vero che l’uomo amava il calcio più di ogni altra cosa al mondo? Non era altrettanto sicuro che la giustizia gli dovesse ormai un «risarcimento» morale?

Intervistato da Pippo Baudo a La freccia d’oro, programma pomeridiano che prevedeva un quiz per scoprire un personaggio famoso attraverso alcuni indizi, Pasolini alla domanda «Se non avesse fatto lo scrittore, cosa avrebbe scelto?» rispose «Avrei fatto il calciatore». «In che ruolo?» ribatté il presentatore, e lui, con tono sicuro che non nascondeva una garbata timidezza: «Mezz’ala». Lo si era già detto, ma qui suona da conferma. Fra i giudici, nello stadio di Ciampino, Gherardo Colombo e Felice Casson, fra i politici Walter Veltroni e Massimo D’Alema. Alla partenza da Termini, le tende spesse di broccato marrone, mosse dal vento che giungeva dai finestrini aperti nono- stante le temperature di novembre, schiaffeggiavano le guance dei passeggeri seduti lì accanto, il paesaggio non era più quello originario, anche se il Mandrione sembrava immacolato nella sua realtà marcita di rudere. Intronata sui sedili di legno, Betti, al meglio del suo furibondo fulgore, rimuginava intanto qualcosa di terribile, una scenata, sì, una scenata improvvisa, una scena madre che sarebbe poi avvenuta davvero in trattoria.

Franco Citti, Sergio Citti, Mario Cipriani (quest’ultimo è «Il Balilla» di Accattone e lo «Stracci» de La ricotta), e Ninetto Davoli, per fatti loro, la testa nel piatto colmo di ricotta, citazione alimentare volontaria della serata, se ne infischiano delle sue bizze, anzi, Franco Citti mormora un «Ma se n’annasse affanculo, che cazzo vole…» Forse insieme a loro c’era anche Ettore Garofolo, il figlio della Magnani in Mamma Roma. Gli ex ragazzi di vita anche quel giorno, vent’anni dopo la fine tragica dell’amico «Paolo», «Pa’», mostravano d’appartenere ad altri mondi, Paese e tavoli separati, lontani dagli e dalle sovrastrutture della cortesia borghese. Anche Franco Citti, sì, lui, Accattone, e non il fratello Sergio, il regista, il «filosofo» che portò Pasolini a scoprire meglio le borgate, proprio Franco, l’attore, un bel giorno, suppergiù nel 1991, sentì il bisogno di fare un film per Pasolini, lo sentì “dal cuore”, come in una chiamata. Nonostante il carattere ombroso, la natura taciturna, Franco ottenne il sostegno di un amico proprietario di una televisione privata, così il film poté essere girato in 16 millimetri, ma «co’ manco ’na lampadina».

Mi raccontava invece Ettore Scola di avere avuto «l’idea di un film con un prologo», da affidare a Pasolini, una sorta di «apocrifo» pasoliniano. «Solo in letteratura esiste il prologo, la prefazione», continuava a dirmi Scola, «dove un autore più importante presenta il testo del più giovane. Allora gli dissi: siccome questo mio film arriva quindici anni dopo Accattone, con un genocidio culturale sempre più evidente, nuovi falsi bisogni imposti dal consumo borghese, mi piacerebbe davvero che ci fosse un tuo prologo. L’avremmo girata a film finito, dopo avere rivisto insieme il materiale montato. Non un prologo scritto, ma un prologo parlato, ovviamente. Era d’accordo, mi disse così: mi vesto tutto di bianco e lo vengo a girare in queste baracche che hai costruito a Monte Ciocci, meglio, in cima a via Cipro, dalle parti della stazione ferroviaria urbana di Valle Aurelia, con me che passeggio tra le baracche e intanto racconto questi dieci anni che hanno visto la prosecuzione di un genocidio umano e antropologico.

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Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube. Il suo profilo Twitter @fulvioabbate