Cento anni di PPP
Per salvare Pasolini bisogna abbandonarlo, non trasformarlo in un feticcio pop
«Contro tutto questo voi non dovete fare altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare». Nel suo ultimo documento pubblico – il testo di un intervento che avrebbe dovuto tenere al 15º Congresso del Partito Radicale nel novembre del 1975, due giorni dopo il suo assassinio – Pier Paolo Pasolini ci consegna un compito: sappiate essere “eternamente contrari”.
I cento anni dalla nascita di PPP ci obbligano a confrontarci con questa eredità inattuabile e sfuggente. Ciò che rimane di Pasolini non è sintetizzabile in un insegnamento univoco o in una formula trasmissibile, ma è rappresentata dalla complessità contraddittoria di una testimonianza che ci invita ad essere sempre incompatibili, sempre contrari. E Pasolini incarna e rappresenta questa inconciliabilità dell’intellettuale “di nessuna chiesa” che vuole attraversare tutte le contrapposizioni cui sono gravide la vita e la società, rifiutando le etichette e le appartenenze. Tra solitudine e mondanità, tra perversione e santità, tra marxismo e cattolicesimo, tra ribellione e conservazione, Pasolini è “eternamente contrario”, inclassificabile negli schemi binari in cui, oggi più che mai, tendiamo a ordinare il mondo.
«I maestri si mangiano in salsa piccante» consigliava il Corvo a Totò e Ninetto Davoli in Uccellacci e uccellini. E se i maestri non vanno venerati, ma letti, studiati, interpretati, digeriti, contraddetti e (quando necessario) abbandonati, allora anche Pasolini va mangiato “in salsa piccante” per parafrasare un saggio di Marco Belpoliti.
Rimanere fedeli al maestro-Pasolini vuol dire affrancarlo dai sacerdoti del “pasolinismo” che lo hanno trasformato in un mito venerabile e intoccabile, in un santino plastificato, in un feticcio pop molto simile alla faccia di Che Guevara sulle magliette. Bisogna tornare alla molteplicità ambigua della sua opera, alla forza tragica e disturbante, come nel suo corpo nudo, indifeso e potente, come nelle foto scattate da Dino Pedriali nella torre della Tuscia dove si era esiliato a scrivere Petrolio. Se vogliamo rispettare il suo comandamento – “essere eternamente contrari” – dobbiamo diffidare dagli epigoni che vogliono imitarne la posa parodiando l’atteggiamento dell’intellettuale apocalittico che parla male della televisione in televisione e che tutti i giorni posta la propria indignazione contro i social sul suo profilo social. Quella retorica benpensante, trita e ritrita, è buona solo per conquistare un po’ di temporaneo consenso. Ma il successo, come spiega Pasolini in una memorabile intervista televisiva a Enzo Biagi, «è l’altra faccia della persecuzione». E gli intellettuali pasoliniani hanno scambiato l’engagement alla francese degli intellettuali del ‘900 per l’engagement all’inglese dell’attivismo social, dove il coinvolgimento del proprio pubblico va di pari passo con il sostegno alle buone cause.
L’antidoto per vaccinarci dal pasolinismo à la page ce lo fornisce, per fortuna, Pasolini stesso. Basta rileggere gli Scritti corsari per avere le armi giuste per difendersi dal virus del conformismo degli anticonformisti, dal pericolo del fascismo degli antifascisti, dall’ipocrisia di chi trasforma la critica radicale in una moda vuota e superficiale. Pasolini non è l’intellettuale organico che “suona il piffero per la rivoluzione”, e tanto meno un semplice giornalista d’inchiesta che si batte per raccontare le verità taciute dai “poteri forti”. Chi schiaccia la morte di Pasolini su quel “Io so” pubblicato in prima pagina dal Corriere della Sera – alimentando l’idea di un martirio causato dalle trame occulte di un complotto politico– lo fa per rendere più accettabile una morte inaccettabile, legata alla pratica di un’omosessualità mai digerita dalla cultura italiana (e dallo stesso Partito Comunista che nel 1946 lo espelle per “indegnità morale e politica”).
La definizione più autentica dell’enigma-Pasolini l’ha data Alberto Moravia che durante il suo funerale dice: «Oggi è morto un poeta». Pasolini è un poeta perché solo i poeti possono plasmare la realtà. Solo i poeti sono capaci di fornirci altre lenti con cui guardare il reale, un altro sguardo che trasforma le cose illuminandole in modo nuovo. Solo i poeti possono trasformare la vita stessa in un’opera. “Poesia vissuta” come la chiama in una lettera a Sandro Penna del 1970 (raccolta nella nuova edizione pubblicata da Garzanti a cura di Antonella Giordano e Nico Naldini), poesia come questione di vita o di morte, nulla a che fare con la retorica del “si stava meglio quando si stava peggio” della vulgata pasoliniana. Solo i veri poeti non ricercano la provocazione esteriore, l’oscenità fine a se stessa, ma il vero “scandalo” che trasforma il mondo e la vita. In un dibattito con il giornalista Antonio Ghirelli, Pasolini lo esplicita chiaramente: «Non cerco la provocazione formale, ma lo scandalo in senso evangelico».
Il termine skandalon è ripetuto almeno 15 volte nel Vangelo e, in greco, vuol dire “pietra di inciampo”. Lo scandalo ci fa inciampare, segna un’interruzione del nostro percorso lineare, è un ostacolo che ci fa sbandare e cadere a terra. E infatti il Cristo raccontato da Pasolini nel suo Vangelo secondo Matteo è una figura radicalmente scandalosa: estrema, ineluttabile, urticante, non accetta compromessi e non scende a patti con nessuno, mette disagio sia i farisei, sia i suoi discepoli. Un Gesù che non ha nulla a che vedere con quello consolatorio e pacificante dei fondi oro delle chiese e delle prediche, ma che ci consente di entrare in rapporto con il mysterium tremendum et fascinans del sacro.
Pasolini stesso vuole incarnare “la pietra dello scandalo” e non solo perché la sua opera scandalizza i ben pensanti (dai Ragazzi di vita accusato di oscenità a La Ricotta accusata di vilipendio alla religione di Stato, Pasolini ha subito trentatré processi e più di cento denunce).
Il vero scandalo di Pasolini è quello interno al suo corpo-opera: lo «scandalo del contraddirmi ogni volta» come ammette ne Le ceneri di Gramsci. Lo scandalo di una natura eretica ed anarchica che rifiuta ogni quieta appartenenza e che segue il proprio desiderio fin nei sentieri più oscuri, un’alterità assoluta che i guardiani del manierismo pasoliniano in tutti questi anni hanno tentato di addomesticare e di normalizzare. Oggi per salvare Pasolini, bisogna abbandonarlo. Ce lo consiglierebbe lui per primo.
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